(Questo estratto parte da pag. 169…)
Vanessa si sentì masticata dall’imbarazzo, si rese conto che Scott non era lì, forse perché mentre la sua crisi d’ispirazione da giovanissimo videomaker perdurava non sapeva come fare per cavare qualcosa di buono dalla famiglia e la dava tutta per scontata come un inutile carrozzone; e così lei insieme ad Annalisa, che era recalcitrante perché impietosita dalla signora Amanda Popster rimasta boccheggiante davanti al forno, voltò a sinistra, fuori dalla cucina, per risalire il corridoio numero uno verso l’ingresso. Intanto sbocconcellava la focaccia appena presa a scrocco iniziando dalle estremità per arrivare alla parte con la marmellata solo come clou della merenda.
Ma il padre di Scott, attraverso la porta numero due del suo salone, le disse ancora: “Un conto è dire “Chi non si lecca le dita gode solo a metà”, altro è sentirsi come me e aver bisogno di demolire a calcioni mio figlio Scott e le sue amicizie per aver realizzato la Fantascienza a casa mia in questo ordinario 2006 in cui non riesco a sfogarmi abbastanza”.
Vanessa: “Ignorerò le allusioni sessuali, perché per come vedo le cose io, dipende da chi provengono. Diciamo che quello è solo un vecchio spot e piantiamola qui!”
Purtroppo però, a causa della perdurante crisi di ispirazione di Scott e delle perdite di tempo in chiacchiere di Hogarth, le situazioni si stavano imbastardendo in maniera un po’ più seria, e già se n’era avuta un’avvisaglia pochi istanti prima con la degenerazione della scena in cucina con Amanda Popster Scott; ora, sentendo l’indiscutibile accento di sfacciataggine di Vanessa, il padre di Scott, che pure era ancora impegnato nei suoi interscambi di veleno con la televisione (in particolare con “Blob” e con Mike Bongiorno, che lui temeva lo volesse sistematicamente umiliare coi suoi quiz dalle risposte cervelloticamente aliene, tanto da credere che tutte le gaffes del formidabile presentatore fossero pantomime studiate dalla Democrazia Cristiana per parodiare proprio le fantasie erotiche del padre di Scott), sentì che anche se non si sentiva bene doveva trovare il modo di sbloccare la situazione. Se non avesse avuto alla svelta, finalmente, una soddisfazione sessuale, con quella tipa che passava nel corridoio, non gli sarebbe più bastato neanche ammazzare tutta quella gente a sangue freddo, la notte, nei quartieri più lontani e coi lampioni guasti. Non c’era dubbio: lui doveva ascoltare l’istinto, in barba alle solite comuni fesserie sulla saggezza del capofamiglia. E perciò, vincendo un forte dolore al braccio e alla spalla destra, che lo stava tenendo quasi immobilizzato sulla poltrona davanti alla TV, si sforzò e con l’altro braccio tirò un paio di corde di canapa che aveva da due settimane predisposto in un sistema di tiraggi nello spazio del salone, e con queste determinò l’aprirsi istantaneo della porta numero due proprio mentre lì davanti passavano Vanessa e la sua innocua amica Annalisa, e con una serie di elastici terminanti in grossi ganci da pesca simili a moschettoni d’acciaio ma con chiusura a scatto e zigrinatura anti-scuotimento le allacciò fulmineamente. Si trattava di quel tipo di impianti di cui sono capaci i grandi bastardi maniacali, e che non si riescono a spiegare perché prevale l’orrore e la sorpresa. E così Vanessa fu agganciata alla vita e al giubbetto e tirata dentro al salone mentre peletti vari aggiuntivi, sporgenti dalle funi, le tartassavano il collo e la fronte mentre la legavano per effetto di quella trappola da ragno umano dotato di lazos automatici. Annalisa si ritrovò con le sneakers che perdevano la suola di gomma fusa mentre i suoi capelli si impigliavano in maniera confusa con i tiraggi di cinque-sei mazzi di fili di plastica, cotone e setole di maiale. A proposito: il maiale tirò un cordone di velluto e abbassò così delle tendine pesanti che schermarono le porte a vetri del salone, di cui quella aperta per quel trappolone s’era già richiusa. Annalisa fu trascinata dai ganci e dai cavi fin sul fianco della poltrona del padre di Scott, dove lei finì con lo schiantarsi, col sedere compatto e le gambette da ragazzina che cerca di essere seria, sbattuti sul pavimento, mentre la schiena era schiacciata contro il fianco della poltrona, in modo da non poter guardare negli occhi il suo aguzzino.
Il padre di Scott le disse: “Tu vieni dopo. Ma non ti smarrire, perché io ce la faccio, a regolarvi tutt’e due!”
Poi si rivolse a Vanessa, che aveva la bocca strizzata da due funi di canapa eppure esclamava sprezzante: “Arredamento della minchia!”
Il padre di Scott: “Già… Mia moglie anche in questo ha la sua responsabilità: non conta una sega eppure ha le pellicce che le passano tra le gambe, quindi mi ha spinto a creare in questo salone un ambiente che fosse più di gusto”.
Non a caso, la moglie, dal pomposo e poppeggiante nome d’arte di Amanda Popster Scott (aveva preso il secondo cognome fittizio dal nome del figlio maschio su cui s’era fissata da tempo), al secolo Helen, non aveva più messo piede lì dentro sia perché provava un dispiacere troppo grande, in quella fase turbinante della sua carriera da chiassosa superstar degli almanacchi condominiali, nel rivedere le cornici con le foto di famiglia che le ricordavano il periodo in cui il marito era ancora tale e non ancora il fantasma d’uno spaventapasseri che ordisce trame malsane con i colleghi di lavoro e svanisce di casa per settimane andando forse a compiere crimini presso le uscite della metropolitana o ai margini dei mercati ittici dismessi… sia perché quelle foto non erano neanche più visibili nelle loro versioni originali ma si presentavano invischiate nelle collosità verdi e marroni di una gelatina salmastra magari di origine lovecraftiana che il marito stava secernendo da qualche ora, forse proprio allo scopo di sentire più “suo” quel salone, ed instaurarcisi come sovrano degli spolpamenti. Quegli spolpamenti, pensava lui, i quali con stizza e visceralità operava sia ai danni delle sue vittime, sia sul suo braccio sinistro e la spalla corrispondente, che s’erano bloccati a livello articolare e tendineo-muscolare in un marasma di carne rancida segnata da venature turgide che lottavano contro l’intasamento, e da un puntinismo che sembrava l’effetto dello spargimento sottopelle di uova di qualche essere stronzo alieno. Il padre di Scott osservava tutte queste mutazioni, su di sé e intorno a sé, nella consapevolezza che le nuove foto che aveva appeso lui alle pareti del salone tra una scolatura e l’altra di putredine oleosa e gorgogliante – e che rappresentavano scorci urbani allucinati con palazzi di vetro incrinato cadenti, pali del telegrafo intrecciati, pile di terrazzini del quartiere Boccea dove i gatti randagi si sbranavano tra loro sotto a un’insegna sbiadita di una misera piscina privata per epilettici – lo osservavano dalle cornici metalliche sognando di aggredirlo prima o poi col senso del rimorso per tutti gli omicidi che aveva compiuto in quei luoghi, negli ultimi tempi, di notte, rubando ore di sonno al suo cervello a cui gli affari sicuramente non bastavano.
(…continua… Questo è solo un estratto)
il7 – Marco Settembre
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