Una maxi-recensione che cerca di rendere conto, non proprio in sequenza, dei tre prodotti Blade Runner: dal romanzo di Dick al capolavoro di Ridley Scott, fino al discusso sequel di Villeneuve, che occupa lo spazio maggiore per la sua attualità. Il tutto con citazioni riservate non solo agli attori ma anche a due-tre filosofi e un critico, e provando a proiettarsi ancora avanti, sperando che tra altri 35 anni il concetto di umanità non rimanga indietro come un puntino lontano all’orizzonte.
Dopo che un’opera ha attraversato diverse generazioni facendo qualcosa di più che colonizzare il loro immaginario ma rendendoCI addirittura tutti così haunted da cercare in giro per le nostre città, a livello umano e ambientale, tracce dell’inverarsi di quegli scenari narrati dall’autore, il minimo che si possa fare, in questo Ottobre indiscutibilmente segnato dall’apparire nei cinema italiani di “Blade Runner 2049”, è cercare di tirare le fila. Ebbene, mentre nel 1982 ero un adolescente vorace di stimoli e ricettivo ed uscii dunque dal cinema dopo la visione – insieme con il mio storico amico di SFantasticherie – del primo e originale film di Ridley Scott convinto che non avevamo visto solo un film ma qualcosa che sarebbe rimasto nella Storia del Cinema, e non certo solo perché a quell’età si è facilmente impressionabili, ora, invece, sono più consapevole ma anche potenzialmente distaccato, specie dopo aver constatato, insieme a masse di spettatori ormai smaliziati e a volte fastidiosamente ipercritici, il raggiungimento da parte del Cinema di uno status di superpotenza globale, trasversale e alternativa capace probabilmente di favorire gli sviluppi prossimi della Augmented Reality, della Realtà Virtuale, o di quella Ipno-Rutilante e… Scatolare che ci confinerà forse a digitare in loop in un dispositivo su misura per il nostro corpaccione, come scoiattolini nella gabbietta rotante. Basti pensare alla trilogia del Signore degli Anelli, ad Inception e Avatar e alla deriva meccano-godzillistica dei vari Transformer; iI primo “Blade Runner”, viceversa, fu uno degli ultimi film di fantascienza a non utilizzare effetti speciali creati al computer, comprese le esplosioni con fiammate di gas sulla cima dei grattacieli della megatecnolopoli (alcuni in stile maya) ibrida tra Times Square e Terzo Mondo.

Ma, a parte l’aspetto tecnico, è chiaro pressoché a tutti che l’indubbia presa di questo soggetto(quindi anche del sequel) si spiega con la sua capacità di porre in modo vividamente traslato interrogativi che riguardano non solo la struttura del Sistema che ci comprende tutti (nel senso che ci ingloba ma NON che ci comprende nelle nostre aspirazioni) ma soprattutto la nostra natura o addirittura la nostra essenza nelle sue inquietanti modificazioni. Scavalcando la vecchia contrapposizione bipolare tra soggetto ed oggetto, l’essenza dell’Uomo, concetto filosoficamente e antropologicamente impegnativo può in fondo essere ricondotto ad una domanda che ha senso anche nel linguaggio quotidiano: quanto siamo veri? Ebbene, è doveroso ricordare – e non di sfuggita, come molti frettolosamente fanno – che la matrice ideativa dell’universo così magistralmente rappresentato nella pellicola dell’’82 e in quella nelle sale ora è “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (1968), uno dei due più celebri romanzi (insieme a “La svastica sul sole”/”L’uomo nell’alto castello” (il libro ha due titoli in alternativa) di quel genio indiscusso della fantascienza di tutti i tempi che risponde al nome di Philip K. Dick, un autore che, a parte le dolorose sbandate psicologiche che segnarono la sua vita, ma anche come concausa di esse, era – appunto – acutamente interessato a capire quanto di ciò che in quel 1968 si viveva (ma anche prima, eccome!) potesse avere davvero la qualifica di realtà o se non fosse tutta una costruzione illusoria venutasi a creare per l’intrecco subliminale di conformismo, consumismo e trame governative. Al di là delle ipotesi complottiste e delle interpretazioni in chiave cosmico-mistica documentate in altri suoi lavori in cui rendeva conto di ciò che aveva visto con occhi supplementari della mente in periodi di crisi, Dick era anche particolarmente incline a scorgere in individui intenti in occupazioni creative o manuali ed empatici il senso dell’essere umano e temeva che la cosiddetta “razionalità orientata allo scopo” (teorizzata da Max Weber e da lui opposta a quella orientata al valore) potesse, in un futuro abilmente manipolato da multinazionali monopolistiche o quasi, fare della popolazione uno sciame di replicanti, la versione umanoide di quei simulacri per cui è noto il sociologo pure lui un po’ apocalittico Jean Baudrillard, che sosteneva, nella sua prosa saggistica oltremodo ostica, che nulla potesse più dirsi reale.

Questo ha a che fare con il tema dell’identità; se un umanoide è costruito per replicare un uomo, a cosa si deve guardare poi per stabilire la differenza tra originale e copia? All’anima? E se qualcuno non crede ad essa, a cos’altro può aggrapparsi per sostenere di essere un uomo vero e proprio? All’empatia? La risposta per Dick era questa, ma tale divisione tra umani e copie intanto è molto utile a chi dirige il corso degli eventi, perché permette di sfruttare come schiavi i secondi e illudere i primi di essere preservati dal peggio. Quando Ridley Scott ancora stava solo considerando l’ipotesi di dirigere un sequeldel suo favoloso cult, temporaneamente lo chiamava con il titolo di lavorazione “Metropolis” come il capolavoro di Fritz Lang degli anni Trenta; e lo sceneggiatore John Glenn, che abbandonò il progetto nel 2008, affermò che lo scriptriguardava tra l’altro le ripercussioni sulla Tyrell Corporation a seguito della morte del suo fondatore. Questo dimostra l’evidenza: che “Blade Runner 2049” ci proietta con violenza allucinatoria nel futuro delle nostre metropoli e che le corporazioni industriali, al netto dei loro rivolgimenti e del gioco delle dismissioni-acquisizioni, non possono che essere interessatissime al perpetuarsi di un ordine in cui i due schieramenti – schiavi e privilegiati (più o meno illusoriamente) – sono contrapposti, come viene esplicitamente dichiarato dal tenente delle forze di polizia LAPD – e quindi dei blade runners– Joshi (convincentemente interpretata da Robin Wright) in una Los Angeles ancora più mostruosamente spalmata nello spazio rispetto al primo film, in un grigiore post-apocalittico (dopo il Black Out epocale di dieci giorni che ha creato uno spazio vuoto nei registri e nei database digitali finalizzati alla produzione di replicanti) in cui, senza soluzione di continuità, nelle riprese aeree ad alta quota risaltano con effetti plumbei d’angoscia innumerevoli costruzioni ad incastro, piatte, verso un orizzonte invisibile nello smog nebbioso.
Tuttavia, c’è chi, come Philippe Manœuvre di “Métal Hurlant”, uno dei critici più accaniti della pellicola di Scott, affermava che Dick si sarebbe rivoltato nella tomba alla vista del primo adattamento.

In realtà le cose sono più sfumate: l’aspetto delle conseguenze dell’uomo sull’ambiente, visibili su scala planetaria, con la totale assenza di vita naturale, è evidente nel flm dell’82; quello che manca totalmente è lo sviluppo – peraltro non aproblematico – del tema spirituale presente nel romanzo, in cui animali artificiali sostituiscono i loro estinti predecessori, risultando essere, per il loro costo, uno status symbolmolto ambito (ed anche un simbolo del sacro, come annotano i critici letterari): l’agente Deckard accetta un nuovo, difficile ed ultimo incarico proprio per raggranellare il denaro sufficiente ad acquistare una capra/pecora domestica vera, che brama come se si trattasse di reimpossessarsi della sua anima, in un’epoca in cui la Natura compresi gli animali è veramente ridotta al minimo. Nel finale del romanzo il possesso della capra effettivamente ha l’effetto di riavvicinarlo alla moglie, ma la sua amante androide Rachel – un modello postumano di femme fatal, com’è logico aspettarsi, a differenza della sua omologa cinematografica – per ripicca elimina l’animale. E non c’è neanche traccia, nei due film, del dispositivo elettro(nico)domestico che permette alle persone di ritrovare una connessione empatica con i loro simili grazie ai poteri di una sorta di santone peraltro molto contestato dai media (e dai personaggi androidi che conducono una certa trasmissione) e che invece è una persona in difficoltà ma genuina. Il sovraffollamento e la parallela, paradossale mancanza di veri legami tra la gente vengono così raffigurati da Dick in maniera insolita, secondo il suo stile che intreccia visione futuribile e bizzarria creativa, e tutto questo, lo sappia chi non ha letto il libro, è ciò che perdiamo quando pur giustamente apprezziamo il dinamismo neo-noir degli adattamenti cinematografici.
Ma per la verità venne ignorato da Scott anche il segmento del romanzo che vede Deckard incastrato da un altro agente e portato, obtorto collo, in una Centrale della Polizia assolutamente falsa, e gestita dai replicanti ribelli: lì il gioco delle maschere si fa tanto assurdo da creare un senso di vertigine. In definitiva, il “Blade Runner” di Dick non è esclusivamente noired è meno compatto dal punto di vista tematico ma è senz’altro sorprendente ed un vero mustper gli appassionati d fantascienza ed anche di Letteratura tout court.
La coltre di fumo e smog che impedisce ai raggi solari di raggiungere il suolo determina la qualità oppressiva di un ambiente ostile, in alcune zone rugginoso o ovattato di radioattività ocra-bruciata, che giustifica qundi la migrazione di molti umani verso le colonie extramondo. Nel 2049 filmato dal canadese Denis Villeneuve la Tyrell corporation, da tempo fallita, è stata rilevata da una realtà economica ancora più potente che gestisce l’alimentazione sintetica per i terrestri rimasti sul pianeta. I tre decenni tra il 2019 visualizzato nel Blade Runner del 1982 ed il nuovo film vengono “coperti” sommariamente dal punto di vista narrativo da tre cortometraggi incentrati sugli eventi intercorsi: il primo corto, intitolato “2036: Nexus Dawn”, è diretto (come il secondo) da Luke Scott, il figlio di Ridley, ed è incentrato su Nyander Wallace; Il secondo è intitolato “2048 Nowhere To Run” ed è focalizzato sul personaggio Sapper Morton, interpretato da Dave Bautista. Il terzo cortometraggio prequelci dice qualcosa di più sull’evento apocalittico di cui si accenna nel secondo film, è diretto da Shinichirô Watanabe e si intitola appunto “Black Out 2022”.
Le conseguenze di questi eventi si riflettono sui piani di espansione verso le colonie extra-mondo, che anche nell’episodio ambientato nel 2049 non vengono mostrate ma che richiedono nuovi modelli di replicanti il cui life-span(percorso di vita) non sia più limitato ai canonici quattro anni che furono di Roy Batty (Rutger Hauer, nel “Blade Runner” originale, interpretò in maniera epica e toccante l’androide che non voleva smettere di sognare/vivere), secondo i piani imperiali del tycoonNyander Wallace (interpretato da un sinistro Jared Leto, già noto per “Requiem for a dream”, “American Psycho” e “Mr. Nobody” nonché musicista e cantante, ingaggiato per sostituire lo scomparso David Bowie, inizialmente scelto per il ruolo), e questo comporta l’ampliamento angosciante di quella società dello schiavismo di cui cogliamo spettacolari e angoscianti esempi, nel film ora nelle sale, in lavoratori-bambini costretti a lavorare allo smantellamento di pezzi di relitti industriali comprendenti circuiti elettronici, adulti addetti allo scavo in depositi di rottami, assortite lavoratrici sessuali sulle strade caotiche della metropoli illuminate dalle luci artificiali caramellose della pubblicità e, all’inizio, allevatori di proteine che conducono un’esistenza miserabile tirando fuori dal bagno di coltura fangoso esseri di dubbia appetibilità da utilizzare come cibo.
È tra allevatori di questo tipo (uno dei quali, replicante, prima del “ritiro”, allude oscuramente ad un certo miracolo…) e scavengersche si ritrova l’eroe, K, cacciatore di androidi di modelli obsoleti incaricato dalla polizia di Los Angeles e decisamente androide lui stesso.

Dato, questo, com’è evidente, molto interessante, poiché il suo omologo del primo film, Deckard (Harrison Ford) aveva al riguardo uno statussu cui ci si è interrogati finora senza trovare una risposta definitiva. E questa sembra essere la volta buona dato che, mentre Deckard essenzialmente si divideva tra il suo lavoro (la caccia ed il cruento “ritiro” dei replicanti disobbedienti, minaccia per la specie) e la relazione con l’enigmatico androide Rachel, creatura piena di incanto anni Trenta, come buona parte del film, K (un misurato, triste ed efficace Ryan Gosling) invece è chiamato dal destino ad una vera e propria indagine sulla scorta di una inaspettata scoperta, e ciò lo porterà – e porterà gli spettatori – al cuore del problema, cioè al tema dei ricordi… quelli reali degli umani o quelli innestati artificialmente nella mente degli androidi?
Intanto noi personalmente ricordiamo l’illuminante capitolo di “La crisi della modernità” del sociologo britannico David Harvey, dedicato proprio al primo “Blade Runner” in un’ottica post-marxista, e poi le celeberrime “lacrime nella pioggia”, dettaglio-simbolo dell’elegia finale del primo film. Sono nostri ricordi di un mondo che voleva vivere il benessere patinato degli anni ’80 senza rovinarsi il fegato con distopie che potevano far pensare alle tensioni non ancora “disgelate” tra Est e Ovest? O sono ricordi comunque “innestati” in noi da un’altra fantascienza, forse ancora più legata all’emotività di quella di oggi, stretta tra addensamenti di special effects da un lato e di intellettualismo troppo spinto dall’altro, come nel caso del recente “Arrival” (sempre di Villeneuve)? Non è facile trovare una risposta così come non è facile innovare un prodotto già così innovativo, all’epoca. Si può sostenere però che questo sequel audace, co-scritto dallo sceneggiatore originale Hampton Fancher, è sufficientemente spettacolare da attirare nuovi spettatori ma anche sufficientemente profondo da togliere ai die hard fans il dubbio che i loro ricordi della magia dell’’82 non siano stati sfruttati per un “impianto” commerciale. Ritroviamo anche oggi, in questo 2049 filmico, gli scenari urbani ricchi di segnali visivi scritti in diverse lingue, dal russo al giapponese, dall’hindi al coreano, ma ora c’è l’aggiunta di avatars pubblicitari in movimento un po’ fantasmatici, che però non riescono a sorprenderci del tutto. Là dove il gigantismo di questa regia incide di più, dunque, oltre che sulla contemplazione stupefatta dello sterminato panorama antropico dark, è dove questa tecnologia nuova – ma con qualche effetto che ricorda un po’ le disfunzioni dei vecchi VHS – incontra di nuovo i gangli emotivi di noi ancora umani: il tema dei memories, come detto, l’amore ed i giochi di potere. La succitata Rachel viene citata e mostrata anche nel film uscito il 6 Ottobre 2017, e ricordiamo così quanto il suo aspetto ingannasse Deckard e rendesse struggente il suo sforzo di andare oltre la sua capacità di comprensione ed il suo dovere di spietato cacciatore. Ma chi prende per così dire il suo posto nel plot di “Blade Runner 2049” è Joy (nome dall’appeal… trasparente, è il caso di dirlo), una creatura dalla bellezza più moderna ma che conquista ugualmente per la sua morbidezza di tratto (l’attrice Ana de Armas), eppure è ben chiaro sin dall’inizio che si tratta di un ologramma generato da un software, che K può far apparire a suo piacimento, essendo a sua volta ben consapevole di essere un androide.

La qualità struggente di questa nuova coppia è dunque quella derivante dall’essere un amore senza speranza. Ma quand’è che l’amore è davvero senza speranza? Quando solo uno dei due è davvero umano? No, e si vide nell’’82: delle varie unioni degli opposti, quella tra umano e replicante genera una tensione vincente); probabilmente l’amore è senza speranza quando finisce. E però anche la paura della fine è un attributo umano, si direbbe che riveli “anima” in senso più o meno laico (ricordiamo il tema degli angeli caduti nel film di Scott). Dunque i momenti di intimità non mancano, e giungono anche in forme inaspettate e stimolanti che possono turbare e insieme far esclamare che questo sequel non è certo un pedissequo ricalco del sublime antecedente, il quale però arriva a noi come un cult circondato da un alone mitico anche grazie alla colonna sonora impagabile di Vangelis, che nel nuovo film non trova un degno corrispettivo musicale, va detto, malgrado si possa cogliere qualche citazione della vecchia soundtrack nella qualità sordamente gemente e ululante del lavoro dei compositori Benjamin Wallfisch and Hans Zimmer, con picchi orrorifici ispirati vagamente a Ligeti. E non si può parlare di remake mascherato anche perché, mentre Rachel nella nuova pellicola (malgrado l’attrice Sean Young sia ancora viva e vegeta) appare clonata/campionata cinematograficamente dal film originale (forse per preservare la sua immagine di allora nel ricordo degli spettatori), Harrison Ford, animato da un mood misantropo che di certo non stona, dato il contesto, è presente con il suo fisico reale e attempato, ben lontano dalla prestanza sfoggiata nel film originale, che lo consegnò all’Olimpo di Hollywood, quindi il ricalco per lui è decisamente improbabile, anche se il vecchio leone si difende più che bene.

Si accennava ai giochi di potere perché l’universo femminile tratteggiato nell’opera è assai problematico, dal momento che, a parte le compagne virtuali che – come detto – addirittura vanno oltre il loro compito, ma possono sembrare degli oggetti (visuali), le altre due donne forti sono decisamente imperiose, anche se con sfumature diverse, e sarà infatti intensa e severa la scena del loro confronto. Luv, la esecutrice delle volontà di Nyander Wallace, saprebbe anche essere seduttiva, ma per lo più – grazie alla notevole immedesimazione attoriale di Sylvia Hoeks – veste una maschera di impassibilità che rende in modo glaciale ed inquietante la sua pericolosità.

È possibile che questa visione del foeminino risponda, come nel film di Scott, ad un’esigenza di rappresentazione postmoderna degli stereotipi della società. D’altronde, procura agli spettatori un certo senso di disperazione estatica (o estasi disperante) contemplare così da vicino l’idea di un futuro post-umano in cui i sentimenti sopravvivano come le larve nelle colture di cui s’è accennato in precedenza, e prendere atto che i destini della attuale forma di homo sapiens sono alla dirittura finale e che l’evoluzione, ancorché promossa in modi artificiali, non si fermerà ora come non s’è fermata 100mila anni fa. “Più umani degli umani”, recitava la frase che faceva da pay off pubblicitario al primo film, ed ora ci si è spinti oltre, proprio ripartendo da dove il finale aperto dell’opera di Scott ci lasciava: la fuga di Deckard e Rachel. Se i replicanti possono (potranno) riprodursi, i confini tra uomo e macchina sfumano in modo ancor più sconvolgente tanto da poter considerare alcuni di noi, già adesso, dei proto-replicanti in virtù del loro carattere. Si può anche pensare però, di converso, che la prospettiva di un’integrazione sia comunque più accomodante di quella che ci vede lottare contro macchine perfette costruite dagli umani ma che poi si rivelano ostili, come nella saga di “Terminator” nel cui ultimo episodio, peraltro, “Terminator: Genisys”, il nuovo John Connor è egli stesso un ibrido uomo-macchina. In definitiva, questi prodigi della CGI rendering (Computer-generated Imaging) in questi casi non sono affatto fuori luogo perché rispondono al noto precetto artistico (non sempre valido) “la forma segue la funzione”: ci mostrano il punto in cui siamo arrivati per mostrarci il punto in cui arriveremo.
Ogni volta che K termina una missione, è tenuto a sostenere un interrogatorio che mira ad ottenere da lui non risposte logiche, ma prove della sua permanente natura mentale standardizzata. Forse è un modo per “decomprimersi”, come direbbero oggi i profeti del wellness, ma di sicuro è sconfortante ascoltarlo ripetere solo alcune parole finali delle stesse domande, una delle quali è “cella”. Il suo “equilibrio” di gelido unanoide dev’essere mantenuto oltre la scarica emozionale provocata dall’azione, e questo ha perfettamente senso in un mondo alienato. Infatti, paragonato al test di Voight-Kampff (ideato da Dick e presente nel primo film), con il suo approccio personale mirato a cogliere le convinzioni di fondo del soggetto esaminato, il test usato nel 2049 assomiglia di più a quello dell’allineamento delle testine di una stampante. Tuttavia, se ciò che ha unito Deckard e Rachel è stato a suo tempo programmato dalla multinazionale Tyrrell, ciò significa che ottenere un ibrido sia altamente auspicabile, anche se magari il fine non è tra i più edificanti. Si vedrà nel futuro di questo futuro se… alcuni personaggi avranno da dirsi qualcosa di essenziale attraverso una certa cupola di vetro, se chi (umanoide o no) costruisce i ricordi da impiantare avrà un ruolo decisivo, se la mistica del blade runner troverà davvero il suo compimento ultimo nel segno di un unicorno di carta o di un cavallino di legno, se lo status quo verrà rovesciato e da chi e come, ma intanto tutto fa pensare, insomma, che il mestiere del blade runner a sua volta artefatto porta con sé una patina di fatale esistenzialismo, e che l’”umanità” sarà una qualità discussa ma poi in fondo contesa da umani e replicanti di vario grado.

Ed in effetti, ad onta dei risultati al box officeche davano gli incassi di questo sequel di Villeneuve non all’altezza delle aspettative, almeno per il varo, e degli ingenti investimenti per la produzione (150 milioni di dollari), le proiezioni per le settimane a seguire sono buone, contando che le supposizioni sulla difficile presa del soggetto, percepito come adult-oriented, su giovani e giovanissimi, sia bilanciata dalla teoria, altrettanto fondata, che un protagonista umanoide “automaticamente” assurga a eroe-simbolo per tutti i geek/nerd/smanettoni abituati ad identificarsi con la tecnologia stessa e che sognano la contravvenzione suprema alla logica hollywoodiana e quindi l’anti-star che non incarna il solito fedele sostenitore dell’American Way of Life. Ma in ultima analisi si può ritenere che il successo della pellicola aumenti anche semplicemente grazie all’umanissimo “passaparola”.
il7 – Marco Settembre