Cyberprog7: chi?, perché???

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Dannazione! Già all’esordio di questa nuova rubrica da dissidente rabberciato, mi trovo a dover stringere i denti e strizzarmi il fegato per guardarmi bene dentro e capire… cosa voglio: iniziare con una narrazione spiazzante su drammi ridicoli di personaggi dotati di un’anima cyberpunk abrasa da vecchie stampanti ad aghi, oppure cercare in maniera quasi ortodossa di presentare me stesso spiegando in qualche modo da quale razza di oscuro buco metropolitano spunto fuori? Beh, alla fine ha prevalso di poco la seconda opzione, e vi prego di non dire neanche una sillaba sennò è possibile che ci ripensi ancora e che vi spari senza introduzione qualche episodio del mio “Progetto NO”, che è un’opera colossale e per certi versi urticante e abnorme. Per ora meglio di no. E dunque, per presentarmi ho deciso di proporvi una intervista che mi è stata fatta quest’anno, il 7 Settembre, data chiaramente non casuale, eheh!

il7 – Marco Settembre, tra cyberpunk, distopia e surrealismo

Intervista allo scrittore, pittore e fotografo romano che si muove tra cyberpunk, distopia e surrealismo.
(a cura di Giampietro Stocco)

Con lo pseudonimo il7, Marco Settembre ha un duplice profilo: da artista visivo e da scrittore, con la pittura, la fotografia e la scrittura al centro dei suoi interessi. Nato a Roma, dove vive e lavora, si laurea in Sociologia dei Mass Media con la lode, e ottiene il tesserino da giornalista pubblicista nel 2012, ma già dal 2008 aveva cominciato a scrivere moltissimi articoli con un taglio da approfondimento nei settori della Letteratura, dell’Arte, del Cinema, per testate online come Marte Magazine, FestArte, ProNews, Art a part of cult(ure), PsyCanProg, Solaria, The Quatermass Xperiment, Sci-fi Pop Culture, Cyberpunk Italia. La sua attività espositiva da pittore inizia nel 1990, evolvendosi durante il decennio e oltre, e ottenendo un importante riconoscimento nel 1996 risultando tra i vincitori del concorso pubblico comunale “L’Arte a Roma” per i suoi filmati di videoarte.

Pubblica Esterno, giorno (EdiLet, 2011) – libro esistenzial-surreal-ironico su Roma, con le foto di Francesco Scirè, l’antologia Elucubrazioni a buffo! (EdiLet, 2015) e, dopo essere stato nominato nel 2017 Di-Rettore del Dècollage de ‘Pataphysique di Roma, pubblica nel 2018, per le Edizioni Collàge de ‘Pataphysique, con Freddy Gabballaro (pseudonimo di un critico d’arte anche lui romano), Ritorno a Locus Solus, breve sequel dell’opera letteraria più nota dello scrittore proto-patafisico/proto-surrealista Raymond Roussel, intitolata Locus Solus.

Nel Giugno 2019 pubblica un suo racconto cyberpunk-grottesco nell’antologia Oltre il confine, sul tema dei migranti (Prospero Editore).
A Luglio 2020 esce un episodio del suo “Progetto NO” nella seconda antologia del gruppo di letteratura estrema La nuova carne, dal titolo Carneide.

Il Progetto NO, la sua opera più ambiziosa, un romanzo sperimentale distopico, cyberpunk e grottesco da circa 700 pagine, per il momento ancora inedito perché in corso di revisione, è stato da lui presentato in numerosissimi readings performativi, ottenendo il secondo posto al concorso nazionale multiartistico MArte Live (sezione Letteratura).

Fotogramma dal video del primo reading del Progetto NO alla galleria d’arte Ospizio Giovani Artisti, 2017 (da allora ce ne son stati altri 5, prima della pausa forzata per la pandemia).

Ha una Pagina Facebook: https://www.facebook.com/il7.ms/

A questo poliedrico artista romano abbiamo rivolto alcune domande sulle sue attività.

Marco, tu come ti definisci nel quadro culturale italiano attuale?

Credo di rappresentare una figura un po’ particolare, che potrebbe costituire un ente mutageno meno dannoso del Covid: ovvero, scrivo storie semiserie in cui l’ironia surreale può condurre ad effetti comici, eppure al contempo sono un personaggio che i britannici definirebbero haunted, perché dopo una gioventù molto felice ho scontato amaramente tutto, ahimè, prima con la tragedia contorta della fine del mio fidanzamento di 11 anni, spezzatosi in modo turbolento e romanzesco e che, anche se non l’ho raccontato (ancora) in forma autobiografica organica, è stato l’impulso segreto a concepire il terribile ma sarcastico Progetto NO, sul tema della cattiveria umana, resa con toni tormentati eppure messa a tratti in ridicolo come l’idiozia suprema che è; e poi mi è toccata, circa dieci anni dopo, la deriva neurologica schizo-isterica di mia madre che l’ha trasformata, da madre affettuosissima e perfino un po’ soffocante nella sua protettività, in una nemica incline al tormento, al complotto e al sabotaggio. Di questo ci sono ampie tracce in ciò che scrivo soprattutto attraverso una riflessione implicita e farsesca sull’assurdo nella comunicazione umana. Ecco, io credo di essere una figura che cerca di fare della letteratura fantascientifica molto sui generis, un po’ anarchica, di derivazione dalla New Wave, utilizzando in forma bislacca le proprie ossessioni che purtroppo hanno basi serissime in ciò che ho subìto.

Hai affrontato come scrittore il campo della distopia. Per te che cosa è una distopia e in cosa si differenzia da un’ucronia?

In questa risposta sarò lineare: l’ucronia è la rappresentazione di un mondo – con tutto il world building del caso – basato su una variazione molto significativa di un periodo della Storia ben definito, ed occorre una conoscenza approfondita di quel periodo storico per azzardare una ricostruzione, seppur alternativa. La distopia, come tutti sanno ormai, credo, è il rovescio dell’utopia ed è pertanto più facile che venga rapportata ad un modello utopistico fallito che non ad una ucronia, anche se è possibile far convivere i due diversi meccanismi narrativi speculativi. Direi che la distopia è un topos della fantascienza più comune dell’ucronia ma molto efficace perché attraverso l’atteggiamento resiliente di un personaggio o più di uno ad un’ambientazione distopica – un regime, una situazione post apocalittica o una condizione dell’anima – si invita il lettore, tramite il processo identificativo, ad avere CORAGGIO anche nella sua propria vera vita. Indipendentemente dal lieto fine della storia contenuta nel romanzo di turno si deve avere insieme l’attitudine alla lotta e al senso d’umanità.

Distopia come modalità per scongiurare un futuro prossimo che ci spaventa, come abbiamo visto in questi mesi con il Covid-19 o altro?

In parte ho già risposto prima, ma aggiungo che purtroppo (o per fortuna?) la vita vera ci fagocita spesso, reclamando la nostra attenzione e sottraendo valore alla fiction, quando ci troviamo in situazioni davvero difficili come il lockdown. Le difficoltà reali spesso sono più squallide – “opache” – a confronto delle costruzioni narrative più drammatiche, tuttavia appena riusciamo a distaccarci da un’angoscia o da una minaccia reali troviamo in un prodotto culturale distopico una grande riserva di senso, perché infatti l’arte fa questo: mette ordine, costruisce una struttura anche su situazioni e materiali molto drammatici; sistematizza, trova dei nessi, oppure, come nel caso di certi miei lavori, dissemina dei non sensi creativi, spero originali, che fanno riflettere su quanto la distopia-base sia la realtà ordinaria, che spesso sembra un’ impalcatura di cartone esposta a finzioni, assessments posticci, distorsioni e affronti di soggetti beoti, perfidi o meschini (indipendentemente dal genere, e dico questo contro il politically correct, perché anche le donne o i gay non sono al riparo o immuni alla virulenza dell’assurdo e della cattiveria). E a voler essere realistici, non è tanto importante offrire un happy ending, quanto piuttosto il senso di una imprevedibilità nella quale lottiamo per tracciare un incerto sentiero.

Il tuo percorso è del tutto peculiare per un autore italiano, tra multimedialità e molteplici ispirazioni: vogliamo parlarne?

Senz’altro. Direi che la mia ispirazione, in generale, è sempre stata coerente, perché ho sempre inseguito il senso di mistero e a tratti un umorismo dolente che però si aggancia alla dimensione quotidiana riportando il piano narrativo  “con i piedi per terra” con effetto demistificante o sbruffonesco. Nelle arti visive ho potuto operare in questo senso con i miei collage tra surreale, informale e underground, e nei miei lavori fotografici insistendo invece su scorci degradati o misteriosi di Roma che sembrano tratti da qualche set cinematografico fantascientifico o thriller, a volte solo attraverso l’accostamento di due immagini o dettagli, come nei miei dittici.

Collaboro con un paio di gallerie d’arte, per quanto riguarda la mia produzione. Ma è certo che con la scrittura, non essendoci un mezzo tecnico da controllare, posso spaziare come voglio facendo leva esclusivamente e direttamente sulle idee, e sempre cercando di sorprendere. Inoltre, l’ironia probabilmente si fa più trasparente ed efficace, attraverso la parola. La copertina del mio secondo libro, Elucubrazioni a buffo! è comunque realizzata con una mia foto di genere archeologia industriale: raffigura da vicino un macchinario di una vecchia cartiera industriale dismessa; il titolo è Centralina di sabotaggio.

Ironico, surreale, anche un po’ istrionico ma sempre molto razionale e mai casuale: quali  i tuoi autori di riferimento?

Sono solito da tempo seguire i miei autori di riferimento nella loro carriera senza fermarmi ad un paio di loro titoli, perché in effetti, come dovrebbe fare ogni vero scrittore, leggo anche molto – oltre a lasciarmi influenzare multimedialmente, come dicevi, anche da film e da illustrazioni – e perciò posso dire di conoscere davvero bene Philip K. Dick, di cui apprezzo oltre che la visionarietà, la carica umana e, sotto il profilo tecnico-compositivo, la sua narrativa multi focale; ma ho letto (e recensito) molto anche di James G. Ballard, dalla sua fantastica intuizione degli “spazi interiori”, più profondi da esplorare rispetto al Cosmo stesso, alla piega più di fantasociopolitica che aveva preso nell’ultima fase della sua carriera. Per quanto riguarda la carica eversiva condotta con l’arma di un surrealismo fisico e paranoide, non posso non citate il mio debito con William S. Burroughs. Di questi tre autori mi colpisce anche la loro biografia personale, che in parte mi consola delle traversìe che ho dovuto anch’io affrontare. Per quanto concerne la mia tensione a rappresentare con fantasiosi tecnicismi scenari distopici del futuro con i vari dispositivi in uso, direi che un riferimento devo assolutamente farlo anche a Gibson e al suo cyberpunk, di cui sono presenti ampie tracce nelle mie storie, anche se in chiave a tratti semiseria pur mantenendo la drammaticità di fondo. Concludo con una menzione per Douglas Adams e la sua notoria “Guida galattica per autostoppisti”, che rappresenta un importante pietra di paragone anche se il suo umorismo è indubbiamente più rasserenante del mio che resta invece piuttosto acido sia per mia inclinazione personale sia perché legato ai tempi difficili in cui opero, e naturalmente tutti sappiamo in ottica di Sociologia della letteratura, che ogni autore ma messa in relazione col contesto sociopolitico in cui scrive. Tra gli scrittori non SF apprezzo moltissimo sia David Foster Wallace che Don DeLillo, i due guru del postmodernismo globale. Ma naturalmente, quando sono alla tastiera, l’afflato fantastico e la voglia di “spingere” su situazioni insolite e su caratterizzazioni estrose dei personaggi mi permette di volare insieme a tutto questo magma di materiali simbolici come se stessi appunto in ricognizione nel futuro costruendo sub-mondi dall’interno di una sghemba capsula aerospaziale piena di carabbattole e in compagnia di un mostriciattolo trifido che piange per tutto il tempo. E il finale non è mai scontato.

Questa intervista è stata pubblicata originariamente qui:
https://www.fantascienza.com/26120/marco-settembre-tra-distopia-e-surrealismo

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