Ad Amburgo, tre giorni dopo l’annuncio dell’ipocrita abolizione della morte a favore dell’eternità della sofferenza, un tale Jonas Kirkel era riuscito, nel pieno nelle parvenze disadattate della città, squagliate da numerose passate e ripassate di fiamma ossidrica, a trovare un bancomat per poter completare una truffa a carico di un credulone di Fregene. Il suo complice, però, un albino con una grande parrucca, lo odiava e per questo si era portato appresso la nonna di un termòstato, una signora che per questa parentela insolita giocava a fare l’imprevedibile, e l’albino doveva ancora pensare a come smistarne le gambe a fini di riciclaggio. La signora vide che a lato del pannello del bancomat c’era l’ingresso di un piccolo laboratorio distorto dove un tipo con un camice rosso e una aiutante svampita appuntivano i denti di certa gente, ma a prezzi bassi, in virtù di una convenzione proprio con la banca e il cimitero abusivo. Quindi insistette per entrare e minacciò di infrangere con strilli sguaiati il limite dei decibel facendo fallire la trasmissione elettronica del denaro sul conto di Kirkel se non fosse stata accontentata. Due minuti dopo, fiancheggiata dall’albino, che si sforzava, forse per dispetto, di volerle bene come un figlio nonostante la parrucca, lei si stava facendo trapanare tutti gli incisivi fino al midollo e senza anestesia. Al termine, il tecnico odontocritico anonimo si voltò verso l’albino e gli disse: “Andiamo, lo so che lei è il figlio, anche se la matrona la mette in difficoltà, lo capisco. Queste megere hanno vissuto anche le guerre di occupazione delle latrine, quindi resistono a tutto. Lei ha qualche commento in proposito?” “No, no – fece il figlio – Non vorrei però che ora mi restasse col proverbiale dentino avvelenato, la “signora”, perché io la conosco, ha già distrutto una galleria d'”arte balorda” solamente a chiacchiere e mi piglia pure per il culo”.
Quando uscirono, Kirkel aveva i bulbi oculari all’infuori per l’immersione nella spirale virtuale di identificazione furbastri, che aveva dovuto sopportare, prima, nel contesto degli scan-controlli del bancomat, e però l’aveva spuntata, ed era entusiasta per l’affare riuscito, così non notò che la signora Priscillaz usciva con lui dalla porticina anodizzata storta del laboratorio dicendo: “Veramente mi servirebbe anche un colpo di lima al terzo molare a destra, in basso”. Kirkel quindi non riuscì ad evitare, un attimo dopo, che quella vecchiarda lo addentasse all’avanbraccio, facendolo urlare e cadere in ginocchio. Il figlio tirò via Priscillaz gridando: “Cacchio, sei incoerente, mammina cara, cinquant’anni fa avevi detto che è importante la memoria, cioè – direi adesso – anche come viene ricordata una come te..!” Non ottenne risposta perché tutti e tre dovettero fuggire, inseguiti dai cyborg di una setta pseudospiritualista che odiavano chi litigava in pubblico. Ma già quel pomeriggio, a casa, Priscillaz prese a ripetere che uno degli incisivi “lavorati” le faceva male dandole una gran smania di sgranocchiare qualcosa che non fosse però un altro avanbraccio. Il figlio – o il nipote? (boh!) – incassata la sua fetta del bottino della truffa, mandò un tritafax al laboratorio implantologico per spiegare: “Mia madre (e in qualche modo nonna di un termòstato) a tratti dice che ha un lieve fastidio, a uno dei denti trasformati da voi in zanne, altre volte dice che quello sporge all’interno e le fa proprio un male cane. Potete fissarci un nuovo appuntamento? Comunque paga lei, la signora, eh? Io non tiro fuori neanche un franco belga”.
“D’accordo; se vuole può tornare domani pomeriggio, ma badi bene che anch’io ho il dentino avvelenato verso i clienti che non pagano”.
Neanche tre minuti dopo, il figlio chiamò ancora il controambulatorio e disse: “Come non detto; adesso la dama dice che sta bene, che non le frulla niente: E questo significa una cosa sola: che ci sta prendendo per i fondelli a tutt’e due!”
“Mi dispiace per lei; possibilmente non me la porti mai più!”, fece l’anti-dottore, e chiuse la comunicazione. Non l’aveva potuta chiudere del tutto, però, perché Priscillaz, la machiavellica nonna del termòstato, aveva esalato ormai il suo influsso.
E infatti, all’altro capo della linea, in quell’ossessionante casermone plumbeo dove al piano terra c’era il bancomat e il contro-ambulatorio, l’odontocritico e la sua assistente si stavano sforzando di mantenere asettico l’ambiente rimuovendo, tra le apparecchiature, i resti dei loro pasti frugali ed i mucchietti di escrementi di gatto, dato che loro ci dormivano pure, lì dentro, ma il problema più grosso si presentò quando, mentre la assistente, sempre molto garbata perché depressa, si soffiava il naso con le mani, vide il terminale del tritafax e la macchina per la torsione delle gengive che si univano insieme, portando tre dei loro spigoli ed un contatore a lancette a fondersi in una specie di morphing cinematografico, ispirato vagamente a “Skorpio Rising” di Kenneth Anger ma coagulato piuttosto in un cluster di tronchetti di legno e un sinistro blob semi-solido che li stringeva attorno all’immagine di quella scena stessa. Il tempo poi fece due-tre piccoli zompetti in avanti verso il 2012, 2013, 2015, e poi di nuovo indietro, e lasciò manifestarsi sul pavimento grezzo il centro della rappresentazione, ovvero un dannatissimo scorpione nero, di corporatura massiccia e in una posa strafottente. La donna, sempre molto accondiscendente verso il dottore. disse solo: “Merda. Igor, è arrivata la Morte, credo sia per me”.

“Non saprei… Io vedo che l’atteggiamento di quella bestiaccia immonda rivaleggia con quello di certa gente incarognita dalle tante seccature – quasi tutti. Forse quindi è più che altro un sigillo con cui il Ministero dalla Insanità vuole premiarci per il nostro potenziale schizofrenogeno”.
“Eh, ma, se fosse per questo, alla nonna del termostato che è stata qui giovedì dovrebbero dare una coroncina imperiale di pezzi di maiolica porta-cicci”.
“Beh, questo non mi riguarda; piuttosto, sto pensando che se quello scorpione non riesce a pungere te con l’aculeo mortale, devo assolutamente trovare una scusa per attirare qui mia suocera e far pungere lei, che insiste a non voler tornare in manicomio…”
Sentendo quest’ultima, che era una parola-chiave, la assistente ritrovò un briciolo di vitalità: premette un interruttore, afferrò un trapano a doppia nacchera e lo spinse all’improvviso e con forza nell’occhio dell’odontocritico – il destro, dato che lui nel tempo libero era un criptofascista dei videogiochi – senza tuttavia riuscire ad ucciderlo. La donna, tremante, disse: “Non credevo di saperlo fare tutto da sola, io sono solo un’assistente…”
Lo scorpione allora la colpì ad una caviglia col suo velenosissimo aculeo, tutto ritorto, dicendo, con la voce della vecchia Priscillaz: “In effetti, il dottore in camice rosso è solo uno scalzacani, ma tu m’eri piaciuta per come mi aspiravi via la saliva dalla bocca, durante l’intervento. E mi sono accorta che mugolavi di piacere sottovoce, perché sei un po’ repressa, mi sa”.
Rendendosi conto di non essere morto, l’odontocritico, in un lago di sangue, si tamponò l’orbita oculare con un pezzo di carta da pacchi unta di mortadella e disse: “Se ho anch’io imparato qualcosa è che, senza la morte (abolita dallo statista-scienziato dr. Molese) e solo con questa soffferenza senza fine, adesso sto peggio che chiuso al bagno con mia suocera”.
“Dammi l’indirizzo e sistemo pure lei”, fece lo scorpione-nonna del termòstato.
Fuori di lì, sul marciapiede piovevano intanto pezzi di vetrate infrante, carrucole di ferro, e un ombrello scassato, lanciati giù dalla ninfomane del dodicesimo piano, che voleva disfarsi del vecchio arredamento. La valanga di detriti investì in pieno Kirkel, che, essendo stato morso dalla vecchia, c’era rimasto male, e per distrarsi dal dolore lancinante e dalle bolle gialle che di conseguenza gli erano spuntate fino al collo, era andato alla lavanderia a gettone a cento metri dal bancomat dell’altra volta, per far capire che un sottoproletario punk può anche tornare sul luogo del delitto. E invece due carrucole di ferro e una grossa scheggia di vetro gli finirono in testa. Ma lui era bene informato (sul decreto legge anti-morte imposto da Molese) e quindi, accasciandosi, vomitò: “Tanto se non si muore io ci riprovo senza cambiare niente”.
In qualche misura, infatti, l’abolizione della morte rendeva tutti soggiacenti ad un oblio incalzante, quello che impediva a tutti di avere memoria delle proprie sciagurate azioni, perché non c’era nulla di davvero drastico a certificarne il fallimento. Ma d’altronde, se non c’era il bisogno di coltivare la memoria di una tipa come Priscillaz, la nonna del termòstato, dato che continuava a campare e per ora a creare sfracelli col suo modo di fare, dando un cattivo esempio a tutti, era altrettanto vero che era invece completamente morto il ricordo del mondo di prima, perché il declino inarrestabile e irreversibile prodotto dal Progetto NO del dr.Molese impediva a tutti di ricordare ciò che non era più tra noi, come il colore dell’erba, quella normale, e tutto il resto che si era perso per sempre.
In compenso, a tre chilometri ad ovest del controlaboratorio dell’odontocritico Igor, sorgeva una colossale fabbrica di imbecilli androidi unisex, che erano perfettamente in grado, essendo parecchio fessi, di bollare gli umani con rimbrotti paradossali come “C’è gente che si comporta male con te ma sei poco limpido” oppure “La tua proprietà di linguaggio è una cattiveria gratuita”.
ven 19/10/2018 6:12 + lun 22/10/2018 2:48 + lun 11/10/2021 18:05
il7 – Marco Settembre
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