Benvenuto su Cyberpunk Italia! Per quei pochi che ancora non ti conoscono, tu rappresenti al tempo stesso il percorso esoterico e l’esito ieratico in cui si manifesta il genio che viene alla ribalta rivelando le forme dell’essere, dell’espressione e dell’impegno. Riesci a spostarti fisicamente nello spazio, con tutto questo fardello di senso che grava sulla tua aura o addirittura mantieni una tua leggerezza, aiutato in questo dalla tua moto e dal tuo ciuffo colorato?
Considero il mio un avanzare verso se stessi, un riconoscimento continuo di sorpresa in sorpresa, di luogo in luogo, dove piccoli frammenti ti danno la consapevolezza spaziotemporale di essere al posto giusto, poi l’esercizio vero diventa quello della capacità di individuare la giusta direzione. In una parola direi che mi sento bene nella viandanza, nell’espressione labirintica dei tentativi (im)possibili dell’esistere come nell’on the road a cavallo di una Bonneville T100 nerodorata tra una linea curva e un rettifilo dove gli alberi sfrecciano in senso opposto. Il fardello non pesa, perché è fatto di particolari e si (ri)costruisce e si modifica, (ri)centrandosi, a ogni istante.
Cosa succede alla superficialità di fronte al Mistero?
I piedi poggiano sulla superficie della crosta terrestre, nonostante questa sia stata rivestita dall’uomo in gran parte da una pelle anomala, impermeabile all’acqua e ai sentimenti primordiali. La superficialità è spesso connessa a false certezze, autoconvincimenti, a comode soluzioni che (ci) proteggono dalle lacerazioni interiori del senso dell’esistere: il Mistero per eccellenza. Il Mistero è invece per un artista l’involucro nel quale tuffarsi, lacerando quel budello superficiale di cui sopra. (“Correre, correr/verso l’oasi, anche/ se è miraggio”, scrivo in uno dei miei haiku). La ricerca dell’ingresso, anzi dell’attraversamento del Mistero, poi, non può mai avvenire in linea retta, spesso utilizza lo scavalcamento laterale, secondo la mossa del cavallo degli scacchi, spiazzante, zigzagando a sorpresa, in lucida asimmetria.

Sin dai tempi in cui ideasti lo stile “trattista”, poi divenuto ispiratore dell’omonimo Movimento collettivo, hai caratterizzato il tuo fare artistico con un sincretismo profondissimo tra le forze arcaiche, di cui senti come pochi il respiro, e le moderne avventure di uno spirito sempre sovversivo e anticonvenzionale. Vorresti illustrarci questa compresenza antropologica nel tuo lavoro?
“Trattismo” è una sorta di recupero della dignità dell’essere “umani”, attraverso il recupero delle tracce primigenie, dei simboli, dei riti d’iniziazione, del riconoscimento dell’altro come parte di me. Ho definito l’artista un HOMO ACHEROPITUS (dal greco, non fatto da mani umane). La Natura stessa si pone come caos organizzato, non-ordine apparente. Così è per me, legato dal destino ineluttabile di andare in espansione, senza alcuna necessità di appartenenza. Assenza di principi razionali e disancoramento esistenziale sono possibili risposte a un flusso fluido e in(di)visibile che ti fa sentire parte del Tutto.
ll trattismo ha rappresentato per me una forte presa di coscienza a livello personale. Attraverso la comunicazione diretta del dipingere sotto gli occhi del pubblico mi dava la consapevolezza di una sorta di rituale, poi, con lo scioglimento del gruppo, nell’88, l’esperienza artistica trattista rimane sottopelle per cui agisce in ogni elemento del fare quotidiano, quindi diventa un’esperienza introiettiva che ti trascina e ti porta con sé nel tempo.
Se il mondo è fatto di energia, prima che di cose, come sostieni, perché ci facciamo condizionare da Sistemi reificati come quello dell’Arte?
Il mondo è nato, qualunque sia la teoria che lo sorregga, da una serie incandescente di fenomeni. A seguito del successivo, naturale raffreddamento dei corpi – da fluidi a solidi – questi si riducono necessariamente a “forme”. Lo stesso per l’Arte, dove l’incipit è un magma fatto di intuizioni, ipotesi, sensi possibili, che poi diventano, giocoforza, rappresentazioni formali”. Il dono del talento si compie nel momento della continuità reciprocamente osmotica tra pensiero&azione, tra intuizione&realizzazione, tra necessità&espressione. L’esperienza del continuum temporale introiettata dall’artista lo porta inevitabilmente all’abbattimento della frontierà del sé(nso) e all’appartenenza a un dominio più ampio, dove l’identità e l’orientamento diventano punti mobili e flessibili. Ci hanno insegnato per un’intera vita a cercare la riconoscibilità e a mantenere vivo un unico punto di vista e di azione, quando ci accorgiamo che è la vita stessa a spiazzarci, per il suo continuo “cangiamento”. Tornano in mente le parole del “padre” nei Sei personaggi pirandelliani, stesso parallelo, lui fisso nel persempre, chiuso nel suo ruolo unico.
“Berlino era una città-simbolo, una vetrina occidentale in pieno Est”, hai scritto in un tuo celebre articolo. Quella città era sfregiata dal Muro e tu hai risposto impattando quell’opprimente obbrobrio epocale con una Volks – da te dipinta nell’83 alla maniera trattista – utilizzando gli stessi “tratti” anche per quella porzione di muro. Era l’Aprile 1985, e ti filmarono. Mentre guidavi, avevi in testa anche Alberto Giacometti e Joseph Beuys, o volevi solo porre fine alla Guerra Fredda da solo?
“West-Berlin” era la chiara rappresentazione, ancora una volta, di uno dei tanti punti di vista di come vedere e interpretare la città. Sono passati più di 30 anni da quell’azione, che il mondo catatonico ignorava, ora invece il tempo diventa, ancora una volta – jorgeluisborgesianamente – circolare. Ogni volta che la pupilla dell’osservatore focalizza quell’immagine, questa interagisce con la rètina in maniera drammatica, diventa “presenza”. Poi, nel trentennale esatto dell’installazione contro il Muro sul lato ovest intitolata “NON SAREMO PRIGIONIERI DI NESSUN CARCERE” dell’aprile ‘85 ho pensato di riproporre la stessa scena nello stesso luogo. Così sono tornato a Berlino. Con me c’era stavolta Daniele Consorti, un giovane artista italiano che oggi vive a Berlino, come me all’epoca. Trent’anni dopo ho ricostruito di nuovo il senso di quel Muro, del simbolico, dove ho voluto dare una lettura antropologica di un atto politico. Siamo sulla Schlesischesstrasse sulla strada che porta al punto esatto del Muro, tra Kreuzberg e Treptow. Ho riproposto fotograficamente la stessa scena su una tela di sei metri per tre, l’ho ripiegata e messa in valigia. La performance si è svolta presso l’Obenbaumbrucke. In questo punto avevo dipinto il Muro alla maniera trattista. Si vede ancora, in alto a destra, nelle immagini di repertorio dell’’89, la scritta “TRATTISTA IN BERLIN”. Avevo dipinto, precedentemente, anche il Maggiolino e avevamo girato per le strade di Berlino fino a raggiungere il Muro da questa identica prospettiva. Qui c’era il Muro, oggi non più, ma lo spazio e il tempo mantengono la memoria e i punti di riferimento degli accadimenti. Riposiziono la tela trattista simbolicamente nel luogo esatto.
“Ognuno ha dentro di sé la leva capace di scardinare le proprie concretezze”, hai scritto a proposito del rapporto parole-cose. Come proveresti a convincere qualcuno che teme i metaforici salti nel vuoto?
Le filosofie orientali ci hanno suggerito di non dare troppa importanza alla mente, che ci domina in quanto cristallizzatrice di certezze, pronte a fallire in balia delle circostanze più spaesanti, ma di sentire con il corpo e reagire come se ogni volta rimettessimo tutto in gioco. Siamo ogni volta personaggi diversi. Disobbedienza!

A colpi di installazioni e di nomadismo intellettuale sei finito su Wikipedia, ma soprattutto hai fatto di te stesso un’opera d’arte, un blocco in movimento di estetica e azione. Il senso ultimo della tua attività risiede più nelle tracce archetipiche che lasci – le opere – o più nel modo in cui danzi stabilendo interconnessioni volatili come la vita stessa?
Io vivo e agisco – come artista – da sabotatore in una società gestita dagli squali della finanza. Mi accampo nella vita, nei luoghi differenziati – spesso dal profondo valore simbolico (Bonsembiante) – dove realizzo le mie opere. Pitture, sculture, installazioni, performance, labirinti interdisciplinari che oltrepassano, lacerandoli, i codici tradizionali. Come attraversato da correnti multiformi, cerco l’unità nella molteplicità, riconoscibile magari attraverso una benda di lenzuolo imbevuta in pigmento di ossido di ferro, utilizzata per realizzare un’operazione trans species e trasformare una top model in sirena, la stessa che poi utilizzo per la carena dell’arca. Poi capita che qualcuno analizza a fondo il tuo lavoro, ti chiede una scheda biografica insieme ad alcune foto e sottopone tutto a Wikipedia. Mi chiedi del senso ultimo. In realtà le due opzioni vanno di pari passo, nel senso che le tracce reliquiali visibili nelle azioni hanno come fondamento il (mio) piede che le produce così, come i legami aerei con il quotidiano, artistico e non, dipendono dalle ali con le quali sorvolo l’esistenza.
All’interno del rock, quali sono i tuoi autori preferiti (singoli o gruppi che siano)? Cosa ne pensi del Progressive?
Per il rock storico, da Elvis a un certo Dylan, dagli Stones a Springsteen. L’evoluzione dei tempi porta poi – inevitabilmente – all’inserimento di nuovi generi di ricerca: il rock mischiato alla classica o al jazz o al folk, o alla musica indiana… Amo i Pink Floyd, i Jethro Tull, i Genesis, gli Emerson, Lake & Palmer.
Al di là delle differenze formali e di scala, ha più potenza visionaria il tuo “Manhattan Skyscrapers” del gennaio 1989, con la compresenza visionaria del menhir arcaico (in realtà una tua installazione in legno combusto) e dei grattacieli newyorchesi, o la possente “Arca” in alluminio e bende che nell’ottobre 2012 hai portato con altri collaboratori giù lungo la Scala Santa di Roma?
Ogni installazione ha un suo proprio indagare circa un preciso luogo specifico.
Lo skyline di Manhattan (visto da Brooklyn) era per me il fondale perfetto per relizzare un grattacielo arcaico in una città che manca di centro storico. Operazione in due fasi: l’elaborazione dell’oggetto prima, e poi l’inserimento virtuale, nella giusta prospettiva, nel contesto urbano: la scultura è stata fotografata in situ davanti ad una veduta di Manhattan usando una fotocamera analogica, ovvviamente. Quella resta un’operazione antropologica anche se poi a distanza di oltre 11 anni, con la tragedia delle torri, visibili nell’opera in secondo piano, quest’ultima s’è trasformata in una sorta di simulacro profetico delle Twin Towers distrutte.
L’Arca alla Scala Santa, invece, tiene conto di una diversa rappresentazione del mito del diluvio (la terra vista come separazione degli oceani e l’aspetto primordiale dell’uomo come pesce che, grazie all’evoluzione della specie, si autogenera i polmoni per mantenersi vivo con, a dimostrazione, il girino che nasce nell’acqua, così come il nascituro nel liquido amniotico). Altro contesto temporale, i 17 secoli (312 d.C.) che ci separano dalla vittoria di Costantino su Massenzio nella battaglia cosiddetta di Ponte Milvio, grazie alla quale il Cristianesimo viene ufficializzato religione di Stato ponendo fine ai martìri. Elena, la madre di Costantino – narra la tradizione – per ringraziamento andò a Gerusalemme a prendere la scala su cui Cristo salì da Pilato e la portò a Roma, nel luogo dei Papi prima di San Pietro, considerato il luogo più importante della cristianità.
Il primo evento trascina con sé una prospettiva temporale inaspettata, al punto di stravolgere l’ottica progettuale per la quale era nato, mentre il secondo è solo la coerenza di uno studiato accostamento storico-temporale nel suo stretto aspetto scenografico di attraversamento epocale. Ai “poster” l’ardua sentenza.
Due personaggi con due (diverse) missioni: chi ha vinto quel braccio di ferro tra te e il grande fotografo Tony Vaccaro (posa immortalata da Rino Bianchi)?
Il legame affettivo che mi lega a Vaccaro mi porta a sentirmi figlio adottivo di un semidio mitologico che è riuscito a passare indenne le raffiche di piombo di un nemico spietato e braccato quale quello nazista. Soldato-fotografo ad Omaha beach sulle spiagge della Normandia fino alla liberazione di Berlino.
Hai incarnato anche Jean Cocteau in “Mùsami, o Vate, alle colonne del vizio”, uno spettacolo con chiari riferimenti a colossi della cultura del Novecento. Ma in generale, nella performance è più una forma espressiva intima o universale?
In questo caso l’inserimento performativo nella pièce teatrale è stata un’operazione di grande stile drammaturgico merito dell’autrice/attrice/regista MEMZ. Io mi trovo nella doppia veste di Cocteau, che dipinge con le dita bagnate di giallo fluorescente il corpo nudo di Ida Rubinstein attraverso un velo trasparente cui fa seguito il buio totale che mette il rilievo le splendide forme dell’attrice, e poi dell’arciere – nella seconda azione – che trafigge con la freccia la Rubinstein nella parte di San Sebastiano, così come D’Annunzio aveva ideato la scena.
Qual è stato il paradosso che ha indirizzato la tua vita?
Una serie di apparenti contraddizioni hanno caratterizzato il mio percorso: tanto per cominciare, sono nato in una clinica ai Parioli che ora è diventata un posto di polizia. Il paradosso principale mi viene dall’assenza di un’educazione di tipo artistico che si è rivelata una sfida nel tempo. La laurea in ingegneria con l’iscrizione all’albo e l’esercizio della professione per alcuni anni non mi hanno impedito di seguire la strada che un giorno, attraverso la frequentazione di pittori e incisori, mi ha portato a ripercorrerne le impronte; e ormai da quasi 40 anni mi occupo esclusivamente di arte.
Tra le tue tante imprese artistiche c’è la realizzazione di ben 10 numeri del libro-rivista d’arte underground italo-americana “NIGHT Italia”, incarnazione nostrana del foglio fondato dal tuo amico Anton Perich, della cerchia di Andy Warhol. Sei dunque, oltre che artista, sia editore indipendente sia acuto talent scout di cui anch’io ho beneficiato. Il talento, data la natura opaca della realtà, è più tensione inesausta verso la luce o più energetica circumnavigazione dell’ombra?
L’idea è nata durante una vacanza-seminario presso la casa estiva di Anton Perich, nel sud della Croazia, dove avevo portato dieci studenti dell’Accademia di Belle Arti di Roma, tutti allievi del corso di Antropologia culturale, il cui manuale comprendeva il volume “Primitivi urbani”, su dodici artisti – io tra quelli – che negavano il concetto di genius loci. La rivista pop di Perich, “NIGHT Art Mag”, di grande formato su carta da quotidiano, attiva dal 1978 e nella quale dal 1988 Perich pubblicava miei interventi (installazioni, foto, quadri, poesie ecc.) trova quindi nel dicembre 2007 (data della prima uscita) un contraltare europeo, glamour/underground, bilingue, indipendente, interdisciplinare a tutto tondo, dal titolo NIGHT ITALIA, un portfolio di artisti – scelti dal sottoscritto – con una matrice comune, testimoni di una ricerca pura, non finalizzata in primis allo scopo di lucro. Il talento? Una melodia di accordi viscerali che prendono forma nella penombra e si lasciano scoprire piano piano; una volta intuita la grandezza di quel piccolo bagliore azzurrino in fondo alla stanza oscura, poi basta lasciarcisi trasportare senza freni…
Cosa non deve fare un artista oltre a fingere di fare l’artista?
Mai sentirsi debole e sottovalutare le proprie capacità. Abbandonare l’insicurezza.
Rischiare sulla propria pelle in ogni attimo. Il resto appartiene alla stesura di un mio libretto attualmente in corso d’opera (“L’artista come luogo liberato. Sette lezioni”, Edizioni Psychodream, Firenze).
Da qualche tempo stai producendo degli haiku, con cui porti a maturazione il carattere sentenzioso e illuminante – attraverso il paradosso – della tua filosofia. Eccone uno: “Chi è essenza/suprema dell’essere/resta per sempre” (Haiku dell’essere senso – ALI) Ci vuoi parlare del tuo rapporto con la saggezza orientale e del modo con cui si concilia con la schizoestetica occidentale?
La frequentazione dell’Oriente ti porta alla consapevolezza del vuoto, alla dualità dell’uno: yin/yang. E’ fondamentale, anche per la salute psico-fisica, trasmettere all’esterno una quiete assoluta, quando poi dentro il fermento è al massimo. Farsi scivolare le cose addosso, lasciarcisi attraversare è l’unico modo per combattere la frenesia folle del contemporaneo.
Tu, artista multimediale e multiconcettuale, usi in maniera massiva il web e le nuove tecnologie, ma come ti rapporti col medium più invadente, la TV?
L’utilizzo dei social (solo Facebook, tra l’altro) e del web in generale è diventato un mezzo prioritario di informazione (apprendimento) e comunicazione. La TV la utilizzo solo per relax: per lo più visione dei film, meglio se vintage.
A volte mi chiedo se questi concetti abbiano una vera circolazione o restino piuttosto confinati a una cerchia di appassionati e iniziati che hanno voglia di pensare. Che tipo di considerazione sociologica possiamo fare su una società – quella italiana, soprattutto – che non sembra pronta a valorizzare tutti i contenuti avanzati che vengono prodotti?
L’effetto-nicchia è sempre dietro l’angolo. Le piccole cerchie dialettiche, poi, raramente portano a un allargamento dell’informazione. La società italiana, dopo il ventennio socio-popolare berlusconiano da Mulino Bianco, si è inbarbarita e addormentata. La cultura è fatica.
È mai possibile una sintesi tra l’acuta percezione dell’inautenticità della imperante società della simulazione, come dice Baudrillard – con cui hai dialogato nel 1999 al Palazzo delle Esposizioni – e la tua neo-mitopoiesi di sopravvivenza estetica di un sé ancora umano e non simulacrale armato di cuore e conoscenza?
La situazione è dialettica, ma credo che sia praticamente impossibile giungere a un accordo. Le prese di posizione sono molto distanti tra loro. La diatriba fiducia versus simulacra non permette alcun punto d’incontro.
il7 – Marco Settembre e Marco Fioramanti
(Giugno-Luglio 2016)