Ghost in the Shell è un esperimento hollywoodiano sul cyberpunk che arriva fino a metà, delude per i cliché di sceneggiatura e narrazione ma convince e affascina per estetica, azione, atmosfera e rispetto di molti standard cyberpunk.
Titolo: Ghost in the Shell
Regia: Rupert Sanders
Cast: Scarlett Johansson, Takeshi Kitano, Michael Pitt.
Durata: 107′
Genere: Cyberpunk, Azione, Fantascienza.
Uscita: 30/03/2017
Produzione: DreamWorks SKG, Grosvenor Park Productions, Paramount Pictures, Seaside Entertainment.
Distribuzione: Universal Pictures
Trama: Il Maggiore Mira Killian Kusanagi è un cyborg a capo della sezione di Sicurezza Pubblica numero 9, un’organizzazione antiterrorismo cibernetico gestita dalla Hanka Robotics. La squadra si ritrova a dover affrontare un nuovo nemico pronto a tutto pur di sabotare la Hanka Robotics.
Premessa
Ricordo ancora quando entrai in contatto con l’universo di Ghost in the Shell per la prima volta. Ricordo anche quando, più recentemente, ho letto la notizia che sarebbe uscito un film live-action intitolato proprio Ghost in the Shell, di produzione Hollywoodiana però e con Scarlett Johansson nel ruolo del Maggiore. Anche se estremamente differenti fra loro, questi due momenti sono stati entrambi segnati da una grande emozione. Non capita tutti i giorni di scoprire un capolavoro cyberpunk, ma nemmeno di leggere che uscirà un film mainstream ispirato o direttamente connesso alla cultura cyberpunk.
Inutile dire, quindi, che non ho voluto portarmi al cinema il minimo pregiudizio legato a white-washing, tradimento della serie originale, americanata ecc. Per me una grande storia, immersa in uno scenario così credibile e affascinante come quello di Ghost in the Shell, può essere raccontata in molti modi aggiungendo valore all’originale senza rovinarlo o snaturarlo. Anche senza mai perdere quel retrogusto meccanico di passato, a me il cyberpunk ha insegnato a guardare sempre verso il futuro. Questo film, forse, è proprio un inizio del presente e del futuro del cyberpunk e come tale va valutato.
Fatta questa premessa, ecco la mia opinione su Ghost in the Shell.
Cliché / Standard.
Inizio dall’aspetto che più mi ha deluso di Ghost in the Shell: la sua incapacità di uscire da alcuni cliché hollywoodiani legati alla narrazione e alla sceneggiatura. Molti dialoghi risultano banali, privi di profondità e conditi da battute umoristiche prive di valore e la storia a tratti è la copia della copia della copia di tanti altri film d’azione di Hollywood. Dal punto di vista del cyberpunk, preferisco parlare invece di standard: Ghost in the Shell accoglie con grande capacità molti degli standard cyberpunk che noi, ma in fondo solo noi appassionati del genere, siamo abituati a incontrare nei prodotti della cultura cyberpunk. Dal night club della Yakuza alle pubblicità olografiche, molti di questi standard arrivano proprio da Ghost in the Shell e a Ghost in the Shell non potevano che tornare.
White-washing / Dumb-washing.
Se anche voi, come molti, troppi altri avete pensato che il whitewashing fosse il vero problema di questo film, vi siete sbagliati. La recitazione di Scarlett Johansson non è il problema di questo film. O la si ama o la si odia, è vero, ma al di là di questo non credo proprio che un’attrice asiatica avrebbe potuto porre rimedio ai molti difetti del film o far gridare al miracolo. Personalmente ho trovato abbastanza credibile la sua immedesimazione in un personaggio molto difficile da interpretare, avvolto com’è da un’aura di mistero e profondità psicologica che, anche se quasi non traspare, non è secondo me per colpa della recitazione dell’attrice, ma della sceneggiatura. Ecco perché ho deciso di parlare di dumbwashing (dumb = stupido), ovvero del lavaggio completo della profonda componente filosofica, riflessiva, di dialettica interiore e esistenzialismo cibernetico dell’originale. Via tutto, il problema ora è scoprire le origini del Maggiore e vendicarsi del boss cattivo. Un altro cliché che instupidisce la componente più straordinaria di Ghost in the Shell.
Originalità / Fedeltà all’originale.
Se siete andati al cinema con l’intenzione di vedere un remake dell’anime o una trasposizione reale del fumetto in qualche sua parte, sarete rimasti parzialmente delusi. Dico parzialmente perché, in realtà, Ghost in the Shell mantiene in parte una certa fedeltà a fumetto e anime, ricalcando alcune celebri scene in modo piuttosto accurato, risultando però un film totalmente diverso dai due capolavori cyberpunk che lo hanno preceduto. Ibridando il primo fumetto con elementi tratti da altri episodi della serie (cito solo il nome di Hideo Kuze, ma non emozionatevi troppo) questa iterazione di Ghost in the Shell è a tratti originale, nel bene e nel male, e l’impressione è che se non portasse il nome (e l’eredità) di Ghost in the Shell avrebbe anche potuto essere un film molto gradevole e piacevolmente ricco di azione e computer graphic. Attingendo esplicitamente da Deus Ex, Matrix, Blade Runner e molti altri, Ghost in the Shell si ferma a poco più di metà strada, tarpando le ali a grandi potenzialità che sembrano affiorare in molti momenti del film.
Estetica cyberpunk / computer graphic / colonna sonora.
Ecco il punto di forza del film. Il rispetto più grande che Rupert Sanders e il team di produzione del film ha avuto è proprio nei confronti dell’estetica cyberpunk, che ha rispettato e magistralmente realizzato sfruttando tutte le tecniche dell’attuale computer graphic. La metropoli cyberpunk (un mix convincente di Hong Kong, Shanghai e Tokyo) è affascinante, ricca di vita e di stimoli di ogni tipo, con un’ossessione di fondo per la tecnologia e soprattutto per gli innesti cibernetici, di cui si parla di continuo nel film in modo che a noi appassionati di cyberpunk potrebbe però risultare scontato o addirittura privo di spessore culturale. Mi aspettavo molto di più da Clint Mansell, compositore della colonna sonora di questo film, efficace ma purtroppo relegata ad un ruolo di accompagnamento sonoro che non riesce a distinguersi dal classico (nel cyberpunk) loop di synth seguito da una nota bassa lunga e ben distesa. In linea di massima, comunque, estetica e atmosfera cyberpunk convincono e molto, permettendo a questo film di guadagnarsi comunque una buona valutazione complessiva.
Conclusione.
Ghost in the Shell non è un brutto film cyberpunk, e ha sicuramente il merito di aver tolto un po’ di polvere digitale dal cyberpunk, snobbato da anni da Hollywood e dalle produzioni mainstream, oltre che ad aver tentato di avvicinare un mondo così complesso e profondo come quello di Ghost in the Shell (e della cultura cyberpunk intera) ad un pubblico che difficilmente avrebbe apprezzato un remake dell’anime. Sono d’accordo con chi è deluso da questo film, ma sono d’accordo anche con chi lo ha considerato coraggioso, gradevole, il possibile inizio di un nuovo cyberpunk moderno mainstream e come un modo diverso di vedere e raccontare un immaginario che è e resta straordinario. In fondo, questo film non fa mai veramente del male alla serie originale, e per quanto possa risultare mediocre, non lascia la sensazione di aver rovinato o snaturato qualcosa. Se si pensa a anime e fumetto, si resta liberi di vederli e assaporarli come capolavori a sé stanti. Ghost in the Shell è salvo, e se questo esperimento hollywoodiano riuscito solo a metà è parte di quel che sarà il futuro sotto i riflettori del nostro genere, ben venga.