“Hack” di Matteo Taiocchi | UndergroundStories #1

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Hack

Sentire al tatto in un mondo di dimensioni declinate da un’interfaccia al nervo ottico.

Mano? Proiezione sinestetica d’arto fantasma? La gira e piega le dita, assaporandone la verosimiglianza.

Contorsioni vintage interfacciate in un deck da due soldi nella periferia più degradata, nello Sprawl più inoltrato.

Ragazzini che giocano con palle di stracci sotto la pioggia sporca, fuori, svariati piani più in basso.

In un altro mondo.

Le loro grida non passano negli auricolari.

Non giungono alle vele geodetiche in alto, che chiazzano il cielo cupo.

Fumo di Yeheyuan in spire lente che s’attorcigliano ai cavi dell’interfaccia neurale.

Il ramen ormai non fuma più, ma ne è dimentica.

La rete che si dipana come il filo da un gomitolo, due gomitoli, quattro gomitoli, milleventiquattro, esponenzialmente, mentre su un muro di schermi script frenetici e luminescenti scorrono monocromatici verso l’alto, su sfondo nero, linee di comando senza inizio né fine, riflessi azzurri su una pelle chiara come il latte. Dita danzanti sui tasti si confondono nella penombra. Reali? Forse, in quello che sembra il mondo vero.

Labbra rosse, sudore, pale che girano pigre in alto, inosservate, in un’estate grigia, sul fare di un tramonto rossastro e morto.

Una goccia di mascara fa capolino dalla visiera.

Iniettori monodose di stimolanti corticali sparsi a terra come rose cadute da un mazzo.

Un acquazzone tamburella sui vetri, con gocce grandi e lente.

Tensione palpabile lungo i cavi, il respiro sospeso al momento di bucare l’ICE.

L’ICE di una grande zaibatsu sotto l’ombra tentacolare della Yakuza.

Ci gira attorno, invisibile, cerca la crepa senza sfiorare la superficie liscia, ostile e vibrante. Brucerebbe.

La trova.

E poi è dentro.

Libera, schiude inconsciamente le labbra in un sorriso di soddisfazione.

Nessuno può vederla.

 

Cerca, espande la mente.

Corridoi e corridoi, allineati, una rete ordinata e al contempo caotica di cassetti etichettati su ogni parete, pavimento, soffitto.

Corre senza toccare il pavimento.

Cerca, espande la mente.

Un liquido che cade in un contenitore.

Cerca, espande la mente.

Cerca, espande…

Trovato.

Apre il cassetto, le informazioni scivolano nel suo deck attraversando il cervello.

Velocissima, eppure l’apertura lascia un segno.

Si guarda attorno.

Due secondi. Un secondo…

L’ICE la vede.

Fatto.

Fuga, fuga vertiginosa. La matrice si deforma, la coscienza dipinge il suo concetto di velocità come schizzi vettoriali che sfocano su una tela multidimensionale. I battiti salgono, l’adrenalina colpisce il petto come un maglio mentre le propaggini nere dell’ICE giungono ai margini del campo visivo tentando d’inghiottirla.

Gli avambracci formicolano, la spina dorsale trema.

 

Nero.

Quanto tempo è passato?

La sigaretta è ormai cenere spenta.

Inspira.

Le mani afferrano il casco e lo tolgono, lasciandolo ricadere su spessi cavi.

Espira.

Riconosce il suono della pioggia. Voci confuse. Sirene. Traffico.

Capelli lisci e scuri si arruffano e ricadono. Le dita vi si immergono e li scostano dalla fronte umida. Mette a fuoco. Iridi verdi e cristalline risplendono nella luce calda di una lampada a incandescenza non schermata.

La pupilla è ancora dilatata.

Il codice vi si riflette immobile, il cursore lampeggia indifferente accanto al log off.

Neon ed ologrammi illuminano intermittenti la notte nella cornice scura della finestra. Una geisha sinuosa ammicca da sopra la spalla nuda con ciglia allungate.

L’ultimo brivido di adrenalina parte dal petto e scorre fino alla punta delle dita mentre stacca gli elettrodi dalle tempie. Sorride, si lascia cadere sulla schiena. Il tappeto sintetico su cui è seduta attutisce il colpo.

È viva. E ce l’ha fatta, pulita.

Il pacchetto è criptato, ma la tecnologia ha un tasso d’obsolescenza elevato. Le dita giocano annoiate finché su uno schermo si srotolano thumbnails di bambine.

Nude, in catene. Toccate da mani altolocate.

Brividi gelidi dalla nuca colano lungo la schiena, il sudore freddo di un’influenza estiva.

 

Un gesto secco e torna la linea di comando.

Lo sguardo si perde per un momento, poi si massaggia il polso. Cicatrici ravvivate. Un marchio a fuoco, per sempre, sull’anima.

Non le ha fatte sostituire da epidermide clonata in vasca. Non coltivano ancora anime in vasca.

Inspira. Ora la parte facile.

Violare i server centrali di tre testate nazionali e depositare prove.

E allora cadranno le teste giuste.

Sospira e si inietta l’ultimo nootropo.

Fa aderire gli elettrodi e rinfila il casco in un movimento fluido, automatico, tenendo lo sguardo fisso sul francobollo di Neo-Tokyo visibile dalla finestra.

L’oscurità si accende di riflessi iridescenti che si confondono con gli ologrammi e i neon rimasti impressi in scie di luce sulla retina. La matrice si dipana nuovamente a perdita d’occhio, l’orizzonte percettivo si espande fino a saturazione. La droga inizia a farsi sentire e il livello di dettaglio poligonale duplica.

Inizia ad accelerare. I colori sfumano ai confini del campo visivo.

La percezione stessa di corpo perde coerenza.

È solo pensiero. Ma si sente viva.

La risposta dell’interfaccia agli impulsi motori genera un tuffo al cardiopalma nel non spazio della rete, un’altra città, invisibile, infinita, contorta e pericolosa.

Affascinante.

Maledettamente irresistibile.

Matteo Taiocchi, 15-03-2018


UndergroundStories è la rubrica varia ed eventuale che si occupa di pubblicare frammenti narrativi, immagini e idee di autori interni alla community di Cyberpunk Italia. Storie di cyberpunk dall’underground.

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