La novocarnista (adoratrice ed esponente de La nuova carne, casa edtrice più che emergente di genere horror e orientata all’insolito) Irene L. Visentin, apparentemente cortese ma non certo supinamente rassicurante padovana incline a ondeggiare tra interrogativi su piccole strane cose delle pianure e aspetti/forze oscuri/e non propriamente solidi, realistici o idilliaci, del suo stesso territorio natìo, stavolta decide di darci una bruttissima impressione 🙂 , esagerando nel titolo che si riferisce cioè a qualcosa che è sommamente odioso, tanto da farci riflettere che dovrebbero tutti eliminare le bestemmie e prendersela col vero Responsabile, per le nostre più disgraziate dannazioni. Voglio dire che il racconto che figura al penultimo posto nel numero 2 della rivista Massacro, e che quindi ci accompagna in discesa verso la fine del magazine ufficiale della casa editrice La nuova carne, si intitola “Satanica” e quello che all’inizio ci salva impedendo la caduta immediata dei denti per lo spavento è la fredda considerazione che in fondo uno scrittore e, perfettamente alla pari, una scrittrice di talento può e forse fatalmente DEVE confrontarsi anche con questo tema che di pancia trovo personalmente indigesto. Ma il gusto è anche questo, e anche per il lettore: affrontare i casini più foschi, iniziando a fare palestra da gggiovani per quando nella vita arriveranno veramente le carcasse fumanti portate dal vento, i trapani arroventati del destino, il granguignol degli stronzi che fanno telefonate anonime vigliacche, le assurde malattie del cazzo che capovolgono perfino il senso delle feci, e non lo dico solo per fare lo spiritoso. E dunque, come tratta il tema la Visentin? Tra furbizia alchemico-letteraria e disinvoltura da puledra con le praterie ancora davanti, la prende da lontano e con la leggerezza che porta alla famigerata e ammiccante immedesimazione contemporanea. Non è proprio precisamente così, perchè l’incipit, in prima persona come tutta la storia – altro trucco primario che favorisce l’empatia – è dedicato subito a un flash vago e spiazzante su una creatura che… sarà sua. Quasi un’epigrafe a nome di ogni madre. Ma i nostri programmi riusciamo a mantenerli? Di seguito, l’immagine letteraria attualissima eppure plurigenerazionale della protagonista che, pur seduta, ciondola apatica in un autobus tornando dal lavoro.
E ‘sticazzi!, dirà un coetaneo incattivito, forse un fidanzato che la dà per scontata. Macchè, lei non è solo questo: arriva a casa, sbraca liberandosi da borsa non leziosa che si apre come un fegato tagliato e lascia uscire oggetti di cui lei certo non perde tempo a vergognarsi, e poi, al culmine della curva discendente del tran tran, chiama la mamma, con cui ha il classico rapporto difficile – classico perchè letterariamente interessante – sui cui inceppi il sornione, maniacale e un po’ scemo lettore può esercitarsi nell’analisi per stabilire se si possa aderire al punto di vista sgarbato di Camilla o se invece compatire la signora Virginia. Ebbene, Virginia va comunque alla deriva nella banalità dei personaggi secondari, mentre “noi” ci innamoriamo della frustrata spavalderia di una che cerca di restare incjnta ma ha qualcosa che gliel’impedisce. Questo il prologo. A seguire, la scena ancora più free style della quasi trentenne al parco, in cui l’inquietudine nel pomeriggio sull’erba e tra lo sciamare delle voci diventa oziosa e si concede a comuni fantasie viziose – che parolona! – che certamente spalma sulla pagina i sentori di idee femminili che sono piccole bandiere. Ma al tempo stesso sono cazzate, la luce diurna s’ammoscia e prima di crederci troppo ci si rimette la giacca e si va via. Questo è funzionale, gente, non crediate che l’autrice sia come voi: lei, mentre fantastica, ci manipola disseminando indizi in quello che dev’essere un crescendo. O no? Lo desideriamo come Camilla desidera la sua creatura, oppure il mostruoso virus della banalità ce l’abbiamo dentro noi e vorremmo solo un racconto pruriginoso tranquillo? Beh, a che serve chiederselo? Il declivio ci porterà dove vuole la Visentin. Appunto. Eccolo, uno, un tale, uno Stefano qualsiasi, un soggetto maschile finalmente dato in pasto alla signorina. Non c’erano dubbi – ancorchè sottaciuti – che lei facesse uso a suo piacimento del giovanotto, dato che aveva trovato il modo di convocarlo alla bisogna. Pare che non sia un rituale monogamico, per così dire, e già questo è appunto un altro indice del gradiente di perdizione, sia pure affascinante, in cui la Camilla sta scivolando. E non si deve, ancora una volta, da lettori, farsi distrarre dai conturbanti risvolti di contorno o preliminari in tutti i sensi, bensì non mollare il pitch: è in corso una feroce ricerca di seme. Altrimenti – questa la motivazione – la longilinea e passionale Camilla si sentirà inetta e inutile… tanto da pensare magari che prevarrebbe lo sconcerto borghese della mamma, la quale forse non riesce a focalizzarsi sulla ricerca di maternità della figlia perché marginalizza mentalmente l’eventualità che Camilla abbia un corpo e una mente desideranti – in realtà un complesso della ragazza. Un’anomalia. E poi, siamo sicuri che una gravidanza debba essere inseguita con questo accanimento? Uhm. È normale analogamente per un autore avere il chiodo fisso di pubblicare un libro, un “figlio di carta”? È uno sfizio o uno sbocco naturale? Pensare che sia un’ossessione, per qualcuna, è esagerato? Ma sì, in fondo fin qui non ci sono diabolicità di sorta, probabilmente si tratterà solo della saldatura tra l’eccitazione giovanile e l’antropologia legata all’orologio biologico di chi vuole creare col migliore stile possibile. “Gemevo senza ritegno” fa certamente parte del pacchetto. Il lettore non tanto medio si compiace, ma poi il calcolo conduce innanzi il canovaccio: perché Stefano è stato chiamato proprio allora? E perché nella malinconia del post coitus tutti se lo chiedono? Sono, queste, rappresentazioni letterarie malsane dei riflussi tra momenti della passione e opacità della realtà. Ci si ritrova nella penombra, e nel racconto è l’anticamera del buio.
Il buio o la luce? Seppur ottenuto machiavellicamente, il concepimento c’è stato? E sarà l’aurora della realizzazione umana di Camilla? O l’insoddisfazione inclinata verso la sfrontatezza resterà la sua cifra erotica? Intanto ora Alice c’è, inizia un dialogo, e sembra la trasfigurazione ancora una volta di quelle dinamiche intime in cui non ci si può intromettere perché sarebbe innaturale, forse perfino spaventoso. Altro cliché infranto: il setting sociale: si potrebbero abbattere le barriere generazionali condividendo la tenerezza per il nascituro, vero?, e invece la giovane donna realizza il latente delirio egotico e trionfante della femminilità sublime che compie il miracolo eretico del restare incinta senza un compagno fisso (!) al cospetto delle “zie” (epiteto generico) da brutalizzare negando le convenzioni. Ciò non è forse definibile come diabolico, come anche il modo in cui una snella figura si deforma per ospitare qualcosa di speciale? Cos’è che spinge a ferire gli altri e a vivere la propria soddisfazione come uno smacco per chi ci sta davanti? Parlandone seriamente ad ampio raggio si può stabilire come l’essere umano possa essere ingiusto e bestiale, ma sul filo letterario dell’anima si può ancora valorizzare questa inclinazione come una vitalistica rivolta contro le ipocrisie borghesi. Perché le stesse “zie” in un’altra storia possono essere acide, e certi gruppi di stronzi possono coalizzarsi contro chi ha meno potere, tipo una donna sterile, o come un “cane sciolto”, e ciò per il puro gusto di esercitare la legge vomitevole dell’esclusione. Una donna che percepisce la piena fioritura del suo corpo e una volontà libera ha invece ancora un potenziale poetico fertile in tutti i sensi. Gli altri – le altre, in questo caso – non sanno fare questa roba qua; e così come lei ne è orgogliosa, quelle “rosicano”. Secondo lo schema consueto. Ma qui è la Visentin che racconta, e quindi il passaggio riecheggia questa dinamica, sì, ma il suo intento è darci il crescente brivido “satanico”. O ancora è possibile che ci grazi? Quanta sapienza può avere lei come autrice e quanta potenza riceve Camilla da quella piccola Alice che le si agita dentro dandole vibrazioni che spesso sono un supplemento alieno di piacere?
Sotto il profilo ancora sociale, pesano le aspettative, il dover essere d’esempio (per chi?) e il dover fornire spiegazioni su come si è rimaste incinte nonostante l’infallibile Scienza proclami che si è sterili e nonostante manchi un vero compagno. Una donna che sia “vera” riesce a superare queste pastoie oppure ci riesce solo una che è in qualche senso posseduta? La tentazione è allora quella di farsi possedere il più possibile magari anche da partner diversi, anche per il gusto di negare poi ogni vergogna e marcare la differenza dal… circolo Pickwick, per così dire. È come quando qualcuno vuole incasellarti a forza in categorie decise pregiudizialmente da qualche stronzo e però, con falso paternalismo, alcuni ti cercano con telefonate anonime per mostrarti a modo loro che ti pensano. Ignorarli e percorrere la propria strada conseguendo risultati è una soddisfazione impagabile e molto sana. Camilla è fiera di aver smentito che i propri ovuli fossero inservibili e di aver “dato alla Scienza il benservito”. Questo tratto è tanto condivisibile che il lettore continua a stare al suo fianco nonostante il clima emotivo si preannunci fosco all’orizzonte.
Godere dell’imbarazzo procurato e della cattiveria mostrata infatti sembra troppo, ma è bilanciata dalla consapevolezza che la figlia che porta in grembo è “esattamente ciò che sperava fosse”. La poesia dell’attesa e il legame profondo sono un patrimonio junghiano che sta prendendo una piega estrema eppure è riconoscibile nella trama anche attraverso questo suo rovesciamento. Ma il rigonfiamento che deforma una figura esile in dolce attesa non è sempre vista anche comunemente come una curiosa “mostruosità”? Ecco che allora anche altri segni incalzanti rientrano in quest’ottica… allo specchio (ribaltato): la maternità muta la donna, e qui l’aspetto è coinvolto, come anche i pensieri, perché, come si è visto, il nuovo “potere” permette di non dover nascondere più nulla. Inevitabile però è che anche l’invadente maschio filtri attraverso la cortina dark di protezione osmotica e faccia la rituale scenata impostata sull'”È per questo che sei sparita?” Oltre la virulenza della fiction, fa sorridere come il modello sereno del rapporto tra partner venga qui infranto da topoi negativi, come il dichiarare il proprio esclusivo possesso del nascjturo e indicarne il genere femminile come se fosse un vessillo nero con su impresse lettere di fuoco. Non so cosa mi prende ma sghignazzo per il meccanismo narrativo che porta il lettore paradossalmente ora a comprendere la reazione sterilmente aggressiva del partner, sdegnato dal classico “farsi scopare” generalizzato della compagna e dal correlato scopo di “giocare a fare la mamma”, attività da cui lui è statutariamente escluso. Ma nessun lettore medio osa sussurrare “poveraccio”, perchè si sa che si deve parteggiare per LA più forte fino a berne l’amaro e fatale calice narrativo. L’accettazione da parte di lui è impossibile, e lei lo sapeva, perciò infine lo insulta dicendogli che è stato solo un mezzo – sacrilegio degli equilibri di coppia – e che c’è un ben altro LUI che beneficerà dell’operazione. È il primo momento nella storia in cui si rivela quest’altra presenza.
Altra esplosione mia di riso quando leggo la reazione basic del lui con la minuscola: “Ma di che cazzo stai parlando, Camilla?” Al di là del valore letterale della frase, in senso malizioso, risulta, pur nella frustrazione da incubo, la tensione per noi liberatoria di tornare ad un livello terra-terra uscendo dall’antropologico e psicologico gioco avvitante di specchi creato dalla Visentin. Sempre in chiave di commedia, isolo la frase tipica che fa da contrappeso alla precedente: “Stefano, non ne fare una tragedia”. Noooo! Ahah! Per così poco!.. :/
Però il punto è che LUI (l’altro) è entrato nella vita di lei, entrando proprio in lei, e il patto è sancito: lei ha trovato il seme (dove capitava), LUI ha provveduto al miracolo (al contrario); perché in una relazione “l’altro”, il terzo incomodo, è sempre un demone, figuriamoci poi quando è IL demone per eccellenza. Basta. Siamo al dunque, al granguignol: il lui normale e imperfetto può sopravvivere? Ditemelo voi. No, nella solita normalità se ne va alla deriva per caxxi suoi, ma qui nella storia invece si varca la soglia e nonostante gli sforzi nostri di soffermarsi sui significati e sull’ironia (anti)romantica, si accede all’horror.
Quindi ora dirò molto di meno. Lo farò con qualche citazione della Visentin, ma sempre con discrezione: il LUI, rimasto senza ridicoli rivali, a campo libero, risulta stupendo, un vero Re. Certo, come no? “I suoi occhi erano vergati dell’arancio degli incubi”. Tutti i gusti son gusti?.. LUI l’ha “estratta dall’opacità delle regole”. Vogliamo metterci a discutere? Certo, le regole a volte ci ingabbiano, oppure c’è chi fa il pezzo di m. viscido e per evitare una seria domanda tergiversa subdolamente dicendo frescacce e divertendosi così, piegando le regole per beffare qualcuno. I casi sono tanti, e nelle vicende umane si può dire a volte tutto e il contrario di tutto e sputare che solo i pazzi dicono sempre la verità. Ma no!, così si incentiva la gente normale a mentire, mentre ciò non andrebbe legittimato. Per il momento è purtroppo vero che spesso si agisce al contrario rispetto al “dover essere”, all’utopia, perché si isola certe volte chi ha un profilo etico superiore e lo si addita perfino come folle quando è la società a essere malata per molti aspetti. In questo caso non c’è spazio o tempo per il dibattito. “È tempo!”, dice lei, mentre lui invece sbuffa appena, totemico. Resta lì. Le doglie si accompagnano alla trasformazione, che prosegue, e richiama numerose scene di vari film horror dei più noti repertori. Che anche una qualunque madre amorevole sia scossa dal Dolore al momento del parto stavolta non ci distrae da questa specificità, da questa irruzione infernale che pare togliere alla donna il potere più o meno sottilmente inquietante di cui si era illusa. È una nemesi? Da lettori, dobbiamo accompagnarla moribondi nella scena come il compagno steso annichilito sul pavimento?
Camilla (attraverso lei, l’Autrice, che quindi dimostra sia profondità concettuale che qualità letteraria) lancia una riflessione sul segno da attribuire al dilaniamento del parto. Leggetela. Un giorno in cui le cose dovessero davvero prendere tinte tragiche potreste essere d’accordo. Lei e Alice si stanno separando. Così come Stefano è stato solo un mezzo per lei, Satana si è solo servito della donna e ora l’abbandonerà? O sarà una versione abissale della Famiglia Addams? L’ironia ormai è fuori posto, non fa breccia. Chi ha fatto breccia è la figlia Alice, che, anche lei, rifrange sull’umana la cattiveria che aveva imparato: la piccola appare soddisfatta di star ferendo chi la mette al mondo. Camilla è come se fosse lei una delle “zie”, ormai. Ma campeggia di nuovo una pesante, odiosa e veritiera (?..) dissertazione sul Dolore. Di chi è? Chi lo alimenta? Di cosa si sustanzia il mondo? A cosa dobbiamo credere, a quale versione, quale realtà ci sembra più vera o prevalente? A questo punto, giunge la descrizione della figlia appena nata. “La concezione del dolore” di Gadda qui si può perifrasare in la Concezione che dà la stura al Dolore totale, alla sua affermazione. Da che punto di vista la nuova creatura vada osservata, considerata, è un quesito che sembra per un attimo l’uscita dalla orrida allegoria… Ma Satana è nella stanza, e il potere femmineo è annullato, lei implora come sotto uno schifoso e massiccio giogo maschilista, in cui il pene è sostituito dalle diaboliche corna. In questo momento, indipendentemente da come finirà, che non rivelerò, siamo tutti donne, che ci siamo cullati come Camilla nell’illusione di potere – la gioventù, l’intelligenza – per poi essere schiacciati, fottuti, dal Brutto e dal Dolore. Ringhiare “vaffanculo” non si può, è un pensiero egoista di cui scusarsi (in questa storia). Costretti all’impotenza attendiamo che il peggio si compia, che il Maledetto faccia quello che voglia, per poter di nuovo ritrovare un respiro, al buio, per piangere, e io anche per imprecare incazzatissimo.
il7 – Marco Settembre
ven 10/3/2023 00:46