“Oggi nessuno è interessato al futuro. Credo che il futuro sia morto nel 1945 con le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki”, dice James Graham Ballard in un’intervista del 2006(“Extreme Metaphors”).“La gente è spaventata dal futuro e per la prima volta è spaventata dalla scienza. La scienza è diventata quasi una forza illecita, manipolatrice della struttura genetica, generatrice di nuove malattie, sperimentatrice con la chirurgia al cervello e al sistema nervoso. […] Allo stesso modo abbiamo perso completamente interesse per il passato; il passato è un programma in tv che parla di Hitler. […] Viviamo in una sorta di presente espanso enormemente, impacchettato come una città di case popolari […] e “La mostra delle atrocità” descrive proprio questo mondo”.
Questa tipica riflessione sullo scenario postmoderno ben si accompagna al lavoro di Ballard, pregno di un’epocale irrequietezza, ma nei suoi ultimi tre romanzi lo scrittore sembra volersi proiettare oltre la presunta Fine della Storia, ed in particolare la figura del medico-ideologo del romanzo “Millennium people” rivela come il suo proposito sia di distruggere il XX secolo!
Il futuro fa paura, eppure non esiste, come il passato. Esiste solo un presente sterminato, piatto e senza senso in cui anche noi sembriamo figurine bidimensionali, quali una ricerca sulla natura della realtà forse riuscirà a dimostrare che siamo effettivamente. La ricerca del senso passa per l’individuazione dei colpevoli e per il sommovimento di un’emozione, la rabbia, che ci scuota dall’apatia. Cui prodest, l’apatia?, ai potenti? E allora, chi è in grado ancora di sentire il bisogno di uno scopo si metta contro i potenti, e sgretoli quell’apparato che forse loro o forse la Storia stessa ci ha costruito attorno in modi e misure inoppugnabili in apparenza. Si dà il caso però che chi sente questa necessità di uno scopo siano fasce sociali che ancora incorporano frange fruste di illuminismo e di progressismo variamente inteso, cioè la borghesia, che, di destra o di sinistra, si fa un vanto della propria capacità di pensare, e crede di poterlo fare anche in tempi di crisi, quando il proletariato non ha soldi per comprarsi il macinato di vitella e loro invece si rammolliscono con tartine e gin fizz.
È proprio quella la sfida: anche Antonio Gramsci, soprattutto Gramsci, ritenne che l’intellettuale dovesse farsi organico e caricare sulle sue spalle il peso delle classi meno fornite di conoscenze e offrirsi a loro come traino intellettuale.
Ma di questi tempi, e intendiamo sia nel pieno dell’epoca postmoderna sia ora nel declino di essa e all’ingresso dell’era del ritorno del qualunquismo, trionfante in veste fascista o meno, si scivola volentieri nel tutti contro tutti, e ogni ideologia, se presentata come tale, crolla dopo cinque minuti. E così la borghesia, nel “Millennium people” di J. G. Ballard, uscito nel 2003 (in Italia un anno dopo) solo di sfuggita si considera il nuovo proletariato, ma per il resto si scaglia contro quelle stesse pastoie che sono poi le sue caratteristiche e cerca di liberarsene senza però sapere dove questa Lotta di Liberazione che sembra ultimativa la porterà. Di certo si deve aver coraggio e perseguire l’obiettivo fino alle sue estreme conseguenze, formula che di norma prelude a disastri irrimediabili. Vale a dire che sarà inevitabile il ricorso alla violenza, ma appunto: è più determinante la violenza o la rivoluzione? In un panorama da disperazione per disincanto, la violenza è solo un mezzo da usare per un fine, machiavellicamente? O non è piuttosto un fine, ovvero fine a sé stessa, la più radicale delle ideologie e perciò l’unica sopravvissuta? Sarà dunque una violenza ideologizzata quella che dovrebbe condurci alla salvezza o non piuttosto una ideologia violenta, come sembrano intuire molti leader d’accatto, oggi?
Karl Marx nell’Ottocento spiegava come la borghesia avesse progressivamente eliminato la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione, accentrando, centralizzando, concentrando tutto nella città, anzi nella metropoli, anche con la conseguente centralizzazione politica. E la metropoli è ancora oggi il mondo in cui l’uomo è condannato a vivere.
Con la differenza, negli ultimi decenni – ma lo annotava già Henri Lefebvre nel 1968 nel suo “Il diritto alla città” -che la deindustrializzazione decisa nell’ambito delle dinamiche economiche, comunicative e sociali della globalizzazione, ha prodotto e “spalmato” su ampi spazi urbani e suburbani una quantità di urban sprawl, anche in Europa, consumando suolo (diventato merce, con l’esaltazione del valore di scambio anziché d’uso) e trasformando il paesaggio (lo spazio vitale si comprime, si acquista, si annulla, si ricrea in forme artificiali e sfruttabili come i mega-centri commerciali in cui si consumano prodotti, servizi in generale segni ma anche i luoghi stessi) e l’organizzazione sociale di milioni di persone; in queste nuove centralità periurbane il potere si distribuisce, diffondendosi, e desimbolizzandosi secondo logiche e configurazioni modellate sulle qualità globali e unificanti delle reti (telematiche, informazionali, finanziarie) che implicano innumerevoli sottosistemi giustapposti, nodi distribuiti nello spazio per i frazionamenti dei processi, secondo le necessità del capitalismo internazionale.
Dunque che cosa vuol dire “diritto alla città”? Indica un mutamento del soggetto che è legittimato a porre la domanda circa il tipo di città che vogliamo, il tipo di persone che vogliamo essere, i rapporti sociali cui aspiriamo (e anche il rapporto che vogliamo intrattenere con la Natura e con la tecnologia). E invece, le forme di divisione del lavoro, fondamentalmente bipartite tra lavoro generico e lavoro qualificato produttore di valore, sono anche parcellizzate e segnate da gerarchie dalla potenza costrittiva che non sembra sempre enorme solo perché esercitata in modi apparentemente anonimi (mentre nell’Ottocento, il modello implicito, era tenuta visivamente in piedi dallo stato di classe). Ne consegue un’evoluzione della tipologia di individuo metropolitano individuata da Georg Simmel nel suo celebre “La metropoli e la vita dello Spirito”:
Ora, come osserva Emiliano Ilardi in “Il senso della posizione”, nella articolazione complessa della metropoli, dal centro alle periferie a agli snodi decentrati di potere, malgrado diversi esiti di segregazione in comunità chiuse o zone marginali connesse più virtualmente che fisicamente col resto, permane la possibilità di interazioni non programmate, che lasciano aperta la possibilità della serendipità sociale, dell’incontro fortuito che fa scattare nuove opzioni, in pieno spirito individualista e liberista. L’individuo blasèe simmeliano però nella nostra era è ulteriormente peggiorato, tanto da aver accentuato l’alienazione e l’anomia ed averle miscelate con le più ordinarie fretta, maleducazione, arroganza, irrequietezza, eccitabilità, ansia e talvolta pretese di onniscienza, in un quadro nevrotico da patologia urbana.
Ballard ci mostra appunto un gruppo sociale, i professionisti salariati del quartiere Chelsea Marina, sulle rive del Tamigi, che, malgrado l’orgoglio dei loro piccoli o grandi attributi di cllasse, avvertono una insoddisfazione, quella di chi si rende conto che certe qualifiche professionali neanche bastano più e che anche loro sono sfruttati e sottoposti arbitrariamente a decisioni pubbliche incongrue – tipo quella di far tracciare doppie righe gialle sull’asfalto per segnare parcheggi a pagamento anche sotto le case dei residenti – ingiustizia palese, questa, che nella prima parte del romanzo viene ripoetuta più volte quasi come un tormentone o un simbolo delle cieche ed assurde direttive che piovono dall’alto dell’amministrazione cittadina. Ma la problematica urbana più centrale, nel libro, è quella della cosiddetta gentrification(dove gentryè termine che sta per la piccola nobiltà inglese di una volta): la spinta di nuovi ricchi, sul mercato immobiliare, a suon di acquisti, a scalzare intere comunità di vecchi residenti dalle aree da loro tradizionalmente occupate, perché quei quartieri per qualche motivo sono diventati appetibili per classi superiori, e la domanda di spazio di vita e di lavoro supera l’offerta, nella Inner London.
“I ceti medi dovrebbero essere la spina dorsale della società, con tutti i loro doveri, le loro responsabilità. Ma le vertebre sono incrinate. Le qualifiche professionali non valgono niente: una laurea in lettere è come un diploma in origami. Quanto alla sicurezza, non esiste. Un computer del tesoro decide che i tassi d’interesse dovrebbero salire di un punto e io mi ritrovo a dovere al direttore della banca un altro anno di duro lavoro” (Millennium People, Pag. 75).
In effetti può indispettire il lettore medio l’accostamento tra le condizioni di questa classe tutto sommato privilegiata e quelle delle classi tradizionalmente subalterne del proletariato – vengono citati gli operai e perfino i minatori – tuttavia questo atteggiamento di insoddisfazione e frustrazione particolari, che in Sociologia prende il nome di “deprivazione relativa” (ci si sente deprivati in relazione ad altri, non in assoluto, eppure la sensazione non è meno pungente) si spiega anche con la storia del suddetto fenomeno della gentrification: fin dall’età vittoriana Chelsea è stato un quartiere alla moda, frequentato da molti artisti ma in cui la ricchezza ha già prevalso sulla raffinatezza innovativa almeno una volta, finché la rapida trasformazione economica degli ultimi decenni prima del libro ha esasperato la crescita del mercato immobiliare (l’innalzamento dei prezzi delle abitazioni) registrata già nel dopoguerra, portando ad una nuova, più prepotente, estromissione dei vecchi proprietari ad opera delle nuove classi del terziario avanzato, persone creative spesso giovani, professionisti della Service Class (i servizi professionali e finanziari).
Questo ha segnato, non solo a Londra ma anche in altre grandi città, un cambiamento di approccio nella pianificazione dello sviluppo urbano, dal criterio pubblico a quello privato, orientato al mercato. E così, seguendo la nuova domanda, son proliferati negozi, ristoranti e servizi di alto profilo, mentre gli abitanti delle classi inferiori o appartenenti ad etnie diverse hanno dovuto spostarsi in un effetto domino che ha spinto ai margini della città gli outsiders.
“Inoltre dove possiamo andare? Nel cupo Surrey? In un posto a due ore di treno, a Richmond o a Guilford? (…) Siamo in trappola come la vecchia classe operaia nelle sue case di ringhiera. Le professioni basate sulla conoscenza sono l’ennesima industria estrattiva. Quando le vene si esauriscono, veniamo scaricati come un sacco di software scaduto. Mi creda, capisco bene perché i minatori sono entrati in sciopero”.(Millennium People, pag. 74-75)
È chiaro che se un processo come questo, già verificatosi in ondate precedenti, si intensifica comportando trasformazioni più consistenti che in passato, può determinare insofferenze anche gravi, specie quando nei soggetti si fa strada la consapevolezza che il loro stile di vita, plasmato per il consumismo dall’industria culturale, li manipola alimentandone illusioni e falsi bisogni e contribuendo in misura strategica a stabilizzarne la posizione nella struttura sociale. E lo Stato ed il partito di riferimento appaiono inadeguati non solo a tutelare i loro interesse, ma tanto più a cogliere analiticamente un disagio psicologico collettivo. In un tale quadro, l’ipotesi che Ballard delinea in “Millennium people” non sembra solo una sottile e divertita provocazione ma un’eventualità non tanto irreale con una sua plausibilità inquietante.
Il romanzo, come detto, è del 2003; oggi si potrebbe aggiungere che la profilazione dei propri dati ed il trattamento degli stessi ad opera di think tank politici o di agenzie di marketing commerciale non è un aspetto della vita moderna che ben predisponga la cittadinanza, a parte i suoi strati più rassegnati o indifferenti.
E allora, la ribellione verso l’ordine sociale costituito, quando esso non rappresenta certi interessi e valori, viene considerata da chi la mette in atto una strategia legittima, e costituisce la matrice anche di ogni forma di terrorismo. La novità letterariamente e sociopoliticamente dirompente di questo romanzo è che i responsabili degli atti terroristici sono personaggi che fanno parte del ceto medio, della borghesia, e non di frange sociali emarginate, e pertanto hanno degli imbarazzi loro stessi nel gestire i loro tic e i loro attributi “tribali” come privilegi, segni di status e soprattutto perbenismo, e dimostrare di essere ugualmente determinati a dar luogo ad una reazione importante che riesca anche a far parlare i media, cioè strumentalizzandoli piuttosto che esserne strumentalizzati. Questa ricerca di strategie inedite e sofisticate, degne di questi soggetti, porta però alcuni rappresentanti di questa classe, gravati anche loro da forme di sfruttamento, ad adottare una ideologia cervellotica, ad alto grado di astrazione. Il dottore pediatra Richard Gould, ritrovatosi ad accudire bambini con neuropoatologie spesso allo stadio terminale in una struttura sull’orlo della dismissione proprio per la ristrutturazione urbana, mostra una sensibilità non comune – e con lati morbosi e discutibili -nell’assolvere a questo compito, ma poi nel dirigere la rivolta di Chelsea Marina, fulcro della narrazione, adotta un punto di vista tanto spregiudicato quanto algido: l’efficacia dell’azione passa per l’imprevedibile gratuità degli atti di violenza. Vale a dire che l’obiettivo scelto, che secondo altri attivisti del movimento deve essere simbolicamente significativo, per lui, in una seconda fase, deve esserlo proprio in quanto casuale, come una presentatrice di una trasmissione televisiva popolare.., proprio per scuotere le coscienze e porle innanzi alla mancanza di senso non tanto dell’atto dimostrativo ma della realtà a cui esso si contrappone.
Il protagonista, lo psicologo David Markham, a seguito dell’esplosione di una bomba all’aeroporto di Heathrow in cui perde la vita l’ex moglie Laura – innesco della trama – inizia una sua personale indagine per cercare di scoprire se i responsabili dell’attentato siano i ribelli di Chelsea Marina o no, e verrà coinvolto/travolto prima in modo quasi casuale poi con sua crescente partecipazione – giungendo anche a distaccarsi dalla moglie attuale – nelle attività dei rivoltosi, nel ruolo labile di infiltrato appoggiato ufficiosamente dalle forze di polizia. Proverà in prima persona come l’antagonismo radicale metta “[…] in discussione il tranquillo tran tran della vita di tutti i giorni, come un estraneo che esca dalla folla per darti un pugno in faccia. Seduto per terra con la bocca sanguinante, ti accorgi che il mondo è più pericoloso ma, concepibilmente, più ricco di significato” (p. 162).
E così, la prosa compiaciuta della propria eleganza di Ballard assume dettagli di quasi vezzosa recriminazione, espone con nevrosi mimetica i caratteri un po’ grotteschi di questo adattamento dei borghesi alla logica di lotta, col loro sforzo di autodisciplina che svaria dal leader carismatico apparentemente distaccato nel senso di non coinvolto materialmente, alla specialista di estetica cinematografica che scopre una sua irrefrenabile vocazione da capopopolo estremista (Kay Churchill), dalla amica di quest’ultima (Vera Blackburn), aiutante convinta dei cospiratori che però si muove con uno stile da aggressività sorda ma estremamente femminile, risultato di un passato irrisolto, fino al prete in crisi, padre Dexter, che gira in moto con una amica cinese.
David si trova così invischiato in una rivoluzione, inizialmente “così cortese e perbene che non se n’era accorto quasi nessuno”, mentre, come accennato all’inizio, in fondo la posta in gioco potrebbe essere la distruzione del ventesimo secolo, almeno secondo l’ideologo della rivolta John Gould, e d’altronde allo psicologo stesso, durante la vicenda, le strutture della società iniziano a sembrare vacillanti o perlomeno mostrano un ventre molle, fittizio, convenzionale.
Memorabile, tra le altre scene, tutte sospese tra verosimiglianza psicologica e spaesamento quasi onirico indotto da situazioni di una guerriglia inedita, il capitolo in cui quella che dovrebbe essere la eterotopia alla Foucault (quel tipo di luogo che ha il potere di giustapporre diversi spazi che sembrano tra loro incompatibili) di Chelsea Marina, placido sobborgo per personcine di classe, diventa una roccaforte disperatamente difesa con mezzi impropri e con determinazione sorprendente dall’assalto a fini repressivi condotto con una certa cautela da forze di polizia in fondo attente a non calcare troppo la mano.
Una misurata pantomima di due blocchi contrapposti che non possono farsi troppo male e che si concluderà, dopo alcune fasi, con un ritorno alla normalità con sfumatura calibrata da parte di funzionari dell’ordine e di una serie di figure di contorno, quasi comparse cinematografiche ciascuna con la sua verità nello scenario suburbano da rientrato allarme e gestione della transizione.
Appesi ad uno scheletro narrativo da crime story, i labirintici tempi, spazi e pensieri delle enclave “comunitarie” rendono però più per il trascorrere patologico dell’atmosfera che per la trama, che comunque regge; lo stupore del lettore ben si fonde con lo stralunato dipanarsi dei dettagli degli attentati-shock. L’attenzione tipicamente ballardiana rivolta agli effetti psicologici morbosi della configurazione del “moderno” sugli individui si coglie anche nel richiamo ad un suo grande successo precedente, “Crash”: Sally, la moglie del protagonista, non ha mai superato il trauma di un incidente di macchina e, malgrado sia clinicamente guarita, si ostina ad abbarbicarsi a stampelle o sedia a rotelle, per muoversi, e a non far togliere le modifiche tecniche personalizzate ala sua automobile.
Emblematiche, è il caso di dirlo, sono le due scene che restituiscono la “cultura da aeroporto” ovvero il senso del più breathtaking dei non-luoghi alla Marc Augè; i vasti parcheggi a pagamento di Heathrow, appunto, sono zone di transito in cui ciò che sosta più a lungo del dovuto sembra andare alla deriva, concettuale simbolo del residuo di un mondo asettico e funzionalista a cui in fondo non siamo del tutto rispondenti.
All’inizio del romanzo si avverte subito come la vita del dottor Markham cambi quando apprende dalla diretta di un telegiornale della morte di Laura, la sua ex moglie, in un attentato terroristico all’aeroporto di Heathrow; anziché rallegrarsene, come in una commedia sarcastica, ha una reazione ispirata da un senso di colpa impossibile e, non fidandosi della polizia, e mettendo a serissimo repentaglio la relazione con Sally, che inizialmente non lo ostacola, si lancia nella sua personale indagine. Ci saranno altre vittime, tutti danni collaterali di un movimento che diventa quasi irrappresentabile come la rete dei nessi tra umano, spazio urbano e politica, ma in cui “I mezzi, se sono abbastanza disperati, giustificano il fine”.
Ma ecco cosa gli dirà ancora il carismatico leader dei rivoltosi, Gould:
“Vacanze a buon mercato, alloggi troppo costosi, un’educazione che non dà più nessuna sicurezza. Chiunque guadagni meno di 300.000 sterline l’anno non conta praticamente più niente. Sei solo un proletario con un completo a tre bottoni. Ed è per questo che non siamo soddisfatti di noi stessi. Io non mi piaccio, e nemmeno tu ti piaci, David.”
Gould rimase a guardarmi mentre cercavo di aprire un rubinetto sul lavandino ingombro.
“La gente non si piace al giorno d’oggi. Siamo una classe di redditieri; un retaggio del secolo scorso. Tolleriamo tutto, ma sappiamo che i valori liberali sono fatti apposta per renderci passivi. pensiamo di credere in Dio, ma siamo terrorizzati dal mistero della vita e della morte. Siamo profondamente egocentrici, ma non riusciamo ad affrontare l’idea del nostro io finito. Crediamo nel progresso e nel potere della ragione, ma siamo assillati dai lati più oscuri della natura umana. Siamo ossessionati dal sesso, ma temiamo l’immaginazione sessuale e dobbiamo essere protetti da enormi tabù. Crediamo nell’uguaglianza ma detestiamo le classi inferiori. Temiamo i nostri corpi e, più di qualsiasi cosa temiamo la morte. Siamo un incidente della natura, ma pensiamo di essere al centro dell’universo. Siamo a pochi passi dall’oblio, ma in qualche modo speriamo di essere immortali….”
Se si considera poi che il cosiddetto accesso ai media viene di solito precluso alle opinioni critiche perché non rappresentative delle istanze politiche prevalenti o incompatibili con le strategie commerciali del mezzo, la via che resta al radicalismo è quella di “generare notizie” con manifestazioni di piazza piuttosto colorite che a volte degenerano in violenza non si sa quanto accidentalmente o per causa di chi, interno od esterno, portando il focus della discussione pubblica su di sé, con il rischio consistente però di emarginare ancora di più queste porzioni della società civile perché le rende identificabili con la violenza al di là delle intenzioni e dei veri messaggi. L’organizzazione di queste componenti sulla rete di Internet può allora essere una chiave per una strutturazione ed una comunicazione del dissenso, come ci insegna il movimento cyberpunk, ma di certo l’espressione delle vecchie e nuove frange di insoddisfatti e svantaggiati assume spesso connotazioni che la pongono come problema più che come forza propulsiva.
Ed è questa, in fondo, la preoccupazione di Ballard (e anche la nostra, oggi): lo scrittore, meno estremo nell’ultima parte della sua carriera pure se influenzato forse anche dall’11 Settembre, non ha portato alle estreme conseguenze sotto il profilo individualistico la paura/attrazione per l’atto violento gratuito come ha fatto Chuck Palahniuk con “Fight Club” (1996) ma piuttosto ha seguito soprattutto la sua inclinazione all’analisi socio-politica finzionale e ha immaginato una sommossa che colpisse in particolare i luoghi della città che sono legati all’immagine, all’autorappresentazione della società e all’informazione, perché in ultima analisi, come ha dichiarato in un’intervista del 2004 su “The Guardian”, teme che persone del Terzo Millennio vengano risucchiate da un nuovo fascismo, con un coefficiente di estetizzazione non certo avanguardistico come quello anni ’30 ma sapientemente e biecamente consumistico, che aggiorni anche il prontuario del nichilismo vendendo un desiderio che già desidera la sua repressione – come scrissero Deleuze e Guattari – e cioè veicolando, come risposta al cambiamento, covata nell’inerzia, la morte degli altri attraverso una contestazione che è prima di tutto a sé stessi, come nel caso dei borghesi di Chelsea Marina.
il7 – Marco Settembre lun 5/8/2019 16:39
