- Questa è la seconda parte della maxi-recensione che ho scritto per l’antologia di fantascienza italiana “Il Fiore della Quintessenza” –
Ma passiamo ai racconti. Dopo la brillante trappola a scatole cinesi (di questi tempi sorvoliamo sulle matrioske nel caso fossero troppo pro-Putin) escogitata in apertura dal curatore Sergio Mastrillo con le sue proiezioni geometrico-matematiche cosmiche tese a valorizzare in modo vertiginoso il concept di tutta l’antologia e del suo titolo enigmatico ed estatico insieme, un altro scoglio ostico (ma in tutt’altro senso) per il vituperato lettore medio può essere rappresentato dal primo degli short tales, che è quasi una sorta di gatekeeping: chi riesce a superare lo sbarramento macabro di questa prima storia, “Condanna a morti”, ha evidentemente la giusta tempra per cogliere poi il siero inebriante del corpo del volume. Naturalmente questa non è una critica, anzi: il racconto ha un impianto molto classico e razionalista, un po’ alla Edgar Allan Poe, tanto da poter essere codificato come un fanta-legal-mystery tale, con una consistente quota di horror, chiaramente, ma soprattutto pone subito i lettori di fronte a un esempio rigoroso e massiccio di quella letteratura che colloca al suo centro le questioni morali. Naturalmente si può essere avvinti anche da altri tipi di narrativa, più vivaci o avventurosi, ma se è vero che il pondus di una storia è dato dal messaggio, qui siamo di fronte a un pesantissimo pronunciamento, e a un pendolo che viene messo in funzione, su unanime deliberazione, per condannare a morte, anzi a morti diverse, un essere – indegno di chiamarsi uomo e forse neanche verme – che ha commesso ben cinque orrendi e gratuiti delitti. La gente di cultura di solito è progressista e si trova a disagio nel valutare l’istituzione della pena di morte, e anche l’esperto Donato Altomare fa intervenire nella narrazione dei religiosi, per confrontarsi col problema, ma se il lettore trangugia questo amaro ma ipnotico e inesorabile calice narrativo è proprio perché i valori, anche quelli progressisti, devono solo essere difesi da certi spiriti malvagi abissali. Il pensiero corre ad un esempio di letteratura “alta” e filosofica come “Lo straniero” di Albert Camus, dove il principio del dura lex, sed lex viene problematizzato confidando nella capacità del lettore – un tipo particolare, avanzato, sensibile, di uomo-consumatore – di riuscire a empatizzare anche con un protagonista apatico verso il mondo, considerando quanto quest’ultimo sia assurdo, se si gratta oltre la patina delle convenzioni. Ma appunto: nel romanzo di Camus in fondo viene mostrata l’inevitabile punizione di un soggetto che sconta la sua estraneità verso un mondo a cui non è capace di, o non vuole, andare incontro, e però è giusto far notare come il delitto di cui si macchia è preterintenzionale, perché di fatto un tipo così non si mobilita neanche ad assassinare nessuno, se non per un colpo di sfortuna – o di caldo. Nel racconto di Altomare, invece, al centro della narrazione non c’è il senso esistenzialista di una certa incomunicabilità totale ma strisciante che genera tante sofferenze; no, al centro di “Condanna a morti” ci sono due elementi, di cui il primo è l’impossibilità di essere indulgenti verso un criminale che ha ucciso per pura malvagità cinque bambini, cinque vittime innocenti, e con modalità ogni volta sadicamente e crudelmente diverse. L’imbarazzo per il lettore è grande, ma relativo: come derogare dal principio discutibilissimo della pena di morte dinanzi a un caso del genere?
La letteratura, con Franz Kafka, ma anche il cinema, in molte occasioni (si pensi al “Minority Report” di Steven Spielberg ispirato dall’omonimo racconto di Philip K. Dick), ci hanno presentato casi di innocenti ingiustamente perseguitati da una giustizia cieca o in base a indizi fallaci. Ma Altomare vuole invece mettere un personaggio abissale, epitome di un horror dell’anima, nelle mani del senso di giustizia di noi lettori normali. E di fatto si accenna a possibilità di redenzione, com’è stato anche nel romanzo di Camus, e in ambedue le narrazioni queste possibilità cadono nel vuoto, però nel racconto che apre questa antologia le possibilità sembrano teoricamente aumentare per il carico di dolore che affronta il condannato, eppure si procede, perché il suo immane dolore dovuto al contrappasso dantesco delle pene rimanda lui a quello che ha inflitto senza motivo alle sue piccole vittime, e continua a ricordarlo anche a noi rendendo davvero arduo il perdono.
L’altro elemento al centro del racconto, ma non sul piano tematico bensì tecnico-strutturale, squisitamente narrativo, è il concepimento fantascientifico di un sistema multiverso che permetta alla corte macabra ma giusta di aprire cinque diversi universi che diano modo di moltiplicare e diversificare le pene per il mostro. Come accade nei romanzi interattivi, qui è il finale che presenta, dopo la dura pentascansione dell’esecuzione, due realtà alternative, eventualità, questa, possibile in un multiverso a bolle, e viene esplicitata una bipartizione cruciale: siamo tra coloro che chiedono redenzione o tra quelli che invocano giustizia? Noi umani abbiamo anche la possibilità di immaginare che una immonda barbarie possa essere emendata, una volta che la giustizia ha fatto il suo speciale corso piegando il tempo più e più volte, ma il giudizio su come possa nascere un simile abominio (e uno dei due corsi temporali supplementari, alternativi, somiglianti a due flashback, per cancellare ab origine l’immondo misfatto, lo conferma) non può cambiare. Ancora una volta il veterano della SF italica Donato Altomare si conferma all’altezza della sua fama con un racconto potente che scuote e fa discutere.
il7 – Marco Settembre

Sogno, lotte e inganni, in “Mater Maxima” di D. Altomare
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