Soggetti scostanti e orrido brulichio: “La piaga Efesto”

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La copertina del romanzo in edizione Urania

Quando uno si sfianca in rincorse dietro alla vita, e compie curve pericolose su superfici dure e sdrucciolevoli, per cercare di cavarsela, e corre sempre il rischio di andare a schiantarsi il cranio contro una grata di metallo o uno spigolo di marmo, in quest’affanno continuo di cercare di raddrizzare esistenzialmente qualcosa, possono venirgli i crampi, il che fuor di metafora può significare che ha i nervi tesi, è troppo concentrato sull’obiettivo della sopravvivenza e trascura di respirare e anche di essere moderato con chi è più fragile. Questi effetti, o meglio difetti, collaterali non mi capita di averli neanche sotto pressione – a parte in una fase della mia vita ma è comunque da discutere – perchè sono una specie di santo, però… però va detto che specie chi è avvezzo a narrazioni aspre in cui gli aspetti orrorifici o pulp non fanno prigionieri, come si suol dire, sa che molti personaggi – porkaccia la mummia stracotta! – sono inaspriti dalle circostanze, e magari da prima ancora che cominciasse la storia. Nel caso di “La piaga Efesto”, classico cult di Fantascienza apocalittico-catastrofica targato 1973, firmato dall’americano Thomas Page (nomen est omen, viene da dire, viste le pagine che ha macinato), la vicenda è talmente “infestata”, nel senso letterale, che l’autore pare che abbia deciso di mettere da parte la dimensione dell’empatia – già di per sè non molto diffusa, ahimè – per fornire invece una rappresentazione tesa e veritiera di certi stati di ostinata e anche disincantata e inconsolabile chiusura verso ciò che invece sarebbe umanità. Certo, poi ci sono le motivazioni, le argomentazioni, l’opportunità, le priorità, e infatti è chiaro che quando il gioco si fa duro ed è chiamato a giocarci chi già di suo è un po’ rigido e pessimista, il risultato è una narrazione accanita su elementi e aspetti che ispirano repulsione e che si vorrebbe analizzare e correggere ma che determinano una paradossale attrazione, forse in fondo la classica attrazione verso l’abisso… un abisso che può essere sia materiale (una catastrofe) che psicologica (la rovina di un’anima…)

Sociopatico?

Ovviamente non posso sapere se Page avesse proprio questo mood quando ha iniziato a scrivere quest’opera, e lui avrebbe potuto dire: “Si può fare qualsiasi tipo di critica; l’importante è che ci sia diritto di replica. E allora, bello mio, ti dico che è stato il personaggio di Henry Tacker a forgiarsi da solo dentro la mia macchina da scrivere, dando nel suo piccolo una “brutta” impronta iniziale a tutta la storia. Però mi stupisco di te che fai tanto la mammoletta quando invece sei il tipo che si mette a leggere questa, che è una storia di scarafaggi. Lascia perdere che io opero distinzioni con i coleotteri, eccetera; ho voluto onorare la componente scientifica della Fantascienza, ma di certo questa è una vicenda un po’ oscura, che non ha timori nell’affondare nel morboso e nel cattivo gusto. Se non sei d’accordo, guarda che non fa niente!” 

Questa connotazione in verità non è così accentuata, all’inizio, perchè il tutto nasce e si sviluppa in un ambiente rurale: in un campo di alberi di pesco tenuto con cura… proprio da quell’Henry Tacker, però, di cui sopra, che fa l’agricoltore, ha “un vocabolario limitato” e se ne frega delle spiegazioni tecniche geologiche o biologiche perchè soprattutto si stizzisce pensando alla sfiga che gli è capitata. Quale sfiga? Una sorta di terremoto che ha prodotto un grave danno proprio lì nel suo ranch: una spaccatura nel suolo proprio nel campo dei peschi. Una reazione normale? Sì, forse, conosco anche amici poliziotti tosti così, che se non gli va di sentire si tappano le orecchie, ma lui, pur avendo la fortuna di una moglie ok, reagisce male quando il ragazzino figlio dei vicini si lascia scappare che i rami dei peschi abbattuti brulicano di quelle piccole bestie nere. Lui non crede al bambino, lo sgrida e lo minaccia come se quello deliberatamente volesse mettere in dubbio che lui curi bene la sua piantagione. Questa è una scena che conferisce secondo me un carattere a una narrazione matura ma un po’ secca, che poggia sulla forza del realismo senza fronzoli e sulla rottura determinata dall’evento insolito. 

Come si propagano poi gli insetti, dato che a un primo esame risulta che non volano e che sono incapaci di riprodursi (lontano dal loro habitat sotterraneo)? Nella maniera più stupida possibile: grazie cioè alla sottovalutazione del fenomeno; non si interviene tempestivamente, e così quegli esseri schifosetti e dannatamente più coriacei e resistenti del normale riescono a raggiungere altre zone… infilandosi nei tubi di scappamento delle automobili, dato che si cibano di carbonio. Effettivamente, in un mondo, o meglio in una East Coast degli Stati Uniti, a partire dalla Georgia, che viene minacciata da questa mer.a (la copertina dell’edizione Urania del libro, affidata al mitico Karel Thole, mostra l’avanzata della formicolante massa di insetti fin nelle metropoli) ci sono tutti i motivi per incazzarsi e non cedere a considerazioni spirituali o a melensaggini varie. Anche se, a dirla tutta, all’inizio del romanzo assistiamo a una predica, ma con con questa scena del prete veniamo più che altro colti dal pregiudizio scettico verso tutti i predicatori, i quali sembrano amare molto più il proprio ruolo di annunciatori di sciagure che non tener conto del fondamento reale dell’allarme di turno.

“La piaga Efesto”, edizione Urania; artwork di Karel Thole

E mentre l’osservazione e la classificazione e la comparazione dei nuovi esemplari proseguono, passando dal piano empirico, condotto “sul campo”, a quello più sistematico portato avanti in studio dagli scienziati, emergendo che il loro metabolismo deriva dalla colonizzazione del loro apparato digerente da parte di particolari batteri, avanza anche la conoscenza del lettore con l’insolito personaggio James Parmiter, animato da una grande dedizione, che, in tono col romanzo, non solo incarna lo spirito scientifico (per l’esattezza entomologico) che giustifica per il libro l’etichetta classica di Fantascienza prima di quella subordinata di Catastrofica, ma soprattutto costituisce un singolarissimo esemplare di essere umano su cui si riflettono, se vogliamo, tutte le considerazioni moderniste sui tradimenti della Scienza, sulle sue mancate garanzie e sullo spirito autodistruttivo faustiano (da Goethe) di alcuni grandi personaggi tra cui a torto o a ragione si fa rientrare la squadra che concepì la bomba H durante la Seconda Guerra Mondiale. Aleggia su di lui anche l’ombra dello stesso famigerato complesso di Frankenstein (che dobbiamo al celeberrimo e seminale romanzo della fantastica Mary Shelley): questo bizzarro e ombroso entomologo dal nome strano, dopo aver ben studiato le caratteristiche della infida bestiola – non solo non vola ma cammina anche a fatica, forse gravata dal suo stesso peso, o forse abituata a un ambiente sottoposto a forte pressione – decide di allevarne qualcuno migliorando geneticamente la specie grazie all’incrocio con un esemplare non ignoto come quello ma comunque raro. E così si assume, o meglio NON si assume davvero, la responsabilità di un’operazione così pericolosa per la razza che invece andrebbe tutelata in quanto sapiens, che è quella umana. Ma infatti si dà il caso che Parmiter, anche lui “elemento” raro ma comunque riscontrabile in natura, dato che le difficoltà rendono più coriacee alcune persone, non apprezza la compagnia dei suoi simili, al punto da staccare il telefono stesso del suo studio e perfino a romperlo.

Il lettore dunque, quale tipo di strana bestia sta imparando a conoscere e temere? I coleotteri, capaci, sfregando un paio di forcelle posteriori, di appiccare il fuoco, oppure lo scienziato sociopatico e irascibile che si chiude in sè stesso e intrattiene forse un rapporto quasi simbiotico con gli insetti suo oggetto di studio? A comparazione con lui l’autore pone un assistente dalla mente fresca e abbastanza placida, ma questo non basta ad impedire che Parmiter abbia il suo peculiare “arco di trasformazione del personaggio”. Si può provare ad attingere al classico “Tipi psicologici” di Jung, per capire meglio, ma può anche bastare tener conto che Parmiter non è un uomo attraente e quindi non ha aspettative favolose sull’altro sesso, e poi il suo interesse spiccato per gli insetti non viene granchè capito dalla gente comune, per cui si ritrova da questa più che altro a essere distolto dal lavoro, le poche volte che qualcuno lo cerca. Ecco allora che le (famigerate?) dinamiche di gruppo incontrano qui un caso particolare: il personaggio isolato ha le sue ragioni e quindi fa valere il principio della coerenza estrema della minoranza (una minoranza composta da una sola unità) confidando nel fatto che se la manterrà, alcune fette della maggioranza potrebbero rivalutare il suo operato. Idealmente e sinteticamente una parte degli osservatori potrebbe esclamare all’unisono: “Beh, ma allora non è matto; anzi, mi sa che siamo stati stronzi noi a isolarlo”. Può capitare.

Frattanto, la crepa nel terreno da cui gli insetti erano fuoriusciti viene inoltre sigillata con una colata di cemento. Ma nonostante i progressi compiuti in termini di provvedimenti, è il disastro: moltissime vittime, e incendi per ogni dove che rendono l’aria irrespirabile provocando anche un’impennata delle patologie respiratorie. Il clima è apocalittico.

Parmiter ha indubbi meriti: scopre che le blatte incendiarie muoiono se sottoposte a suoni di particolare frequenza. D’altronde, l’invasione orrenda e rovinosa di questa specie di scarafaggi viene chiamata la piaga Efesto prendendo il nome proprio dal nome greco del dio che nella cultura romana è noto come Vulcano; questa divinità era appunto chiusa nel ventre della terra, in un vulcano che era la sua fucìna, la sua fabbrica personale, e volete che Palmiter, proprio isolandosi spesso e volentieri nel suo studio, non mantenga la consapevolezza del suo valore? Certo che sì, tanto che chiamerà la nuova specie, unendo il suo nome e quello della divinità greco-romana Hephaestus Parmitera. Però… perché??? Perché ha insistito e infine è riuscito a far accoppiare un esemplare maschio di Parmitera con una femmina della più comune specie Gromphadorhina portentosa? La nuova generazione di insetti ora si nutre di comune cibo e sembra a suo agio nell’habitat cittadino, e pressochè inarrestabile anche se non più immune agli insetticidi. Page quindi riesce a rendere la situazione disperata e a mostrare al contempo sia il senso di sacrificio di diversi scienziati, sia la preoccupante inefficacia dei rimedi, sia, sul piano psicologico, l’evoluzione di un personaggio che della Scienza rappresenta l’ambiguità e dell’uomo l’innaturale tendenza asociale e i suoi esiti estremi.

Viene suggerito che gli insetti sono la specie più diffusa del pianeta, quelli che forse erediteranno la Terra dopo la scomparsa dell’Uomo per qualche scambio di bombardamenti atomici e relativi genocidi. Parmiter probabilmente pensa: “Ora qualcuno pensa che io sia vestito male e abbia abitudini poco igieniche, ma io… sono dalla parte dei più forti, e se la comunità umana non dovesse apprezzarmi… io stesso saprei volgermi altrove” – un pensiero magari inespresso finchè lui intrattiene rapporti col suo assistente o con altre autorità istituzionali, ma in effetti nella seconda parte del romanzo lui si rende praticamente irreperibile. Certamente, mentre la passione per la Letteratura può unire molti, una ammirazione per gli insetti non è facilmente condivisibile. I lettori assistono coinvolti allora non tanto alla descrizione della morfologia di queste sgradevoli creature e al loro comportamento, ma alle fasi in cui l’analisi è freneticamente funzionale a trovare urgentemente, un esperimento dopo l’altro, una soluzione al problema pratico dell’invasione; il lettore infatti non può essere certo sempre brutalizzato: si può giocare con le sue aspettative sorprendendolo, ma è necessario offrirgli dei “ganci” di spirito umano legato alla nostra realtà quotidiana, alla sopravvivenza, per tenerlo avvinto. Ecco quindi che vengono riferiti gli scontri gestiti in laboratorio tra un esemplare della nuova, modificata, specie di insetti incendiari, e altri tipi noti e aggressivi, nella speranza di trovare un avversario del coleottero pestifero, che possa sconfiggerlo se diffuso artificialmente ad hoc nell’ambiente, un po’ come se si pensasse di sguinzagliare nei porti una gran quantità di gatti per far loro eliminare topi che avessero troppo proliferato. La lotta serrata che viene descritta tra questi esemplari è di dubbio gusto, dal punto di vista di una ottantenne massaia di Sulmona, ma ha un senso non solo sotto il profilo pratico ma anche simbolicamente: la brutale sfida all’ultimo sangue tra piccoli mostri fa pensare a come, dalla notte dei tempi, su questo pianeta la vita è sempre stata in gran parte una questione di truci combattimenti, sia con zanne e artigli, sia con pietre e asce rudimentali, sia con l’arma della retorica ritorta e acida delle schermaglie più vergognose nei Parlamenti democratici. Vale la legge del più forte o di chi c’ha più soldi, e chi non è proprio attrezzato ad alti livelli combatte però creandosi una dannata corazza chitinosa, cicatrice dopo cicatrice, e abituandosi a sputare per terra pensando all’aggressore, quando non è visto da nessuno se non da qualche alleato. 

E naturalmente anche le forze di pubblica sicurezza continuano a reagire spegnendo incendi e utilizzando… la Logica (oddìo, mi viene un groppo in gola per le sorti della povera Logica quando qualcuno in chat mi dice “non conta la ragione e il torto” e “non esiste la Giustizia ma solo vendetta”) per cercare di capire il modo sempre uguale in cui sono in relazione gli incendi e la presenza dei fottutissimi insetti.

La progressione drammatica ha dunque varie fasi. Dopo il confronto prolungato e serrato tra Parmiter e le “sue” creature, con la catastrofe che ne deriva, c’è una pausa in cui lo scienziato e l’assistente hanno i ruoli di assistenza invertiti, tanto che è Metbaum a dare evidenti segni di nervosismo, colti da un medico dell’ospedale che annota che il ragazzo non s’era mai comportato così. Si perpetua il tema dello stress. E ciò anche nel nascondere agli altri studiosi le responsabilità nell’aggravarsi della calamità; non è facile, ma è necessario dissimulare quando vengono alla luce dettagli compromettenti, e d’altronde le scene in cui in una narrazione è contemplata la menzogna è coinvolgente perchè apre interrogativi morali, il lettore è invitato a valutare le scelte dei personaggi. Ma c’è anche un’immagine onirica ricorrente che tormenta l’entomologo, ed è un elemento secondario che però ha la funzione narrativa di spingere fatalmente nel climax terrificante.

Alle descrizioni del devastato paesaggio, degne appunto di un classico apocalittico, sono alternate importanti notazioni psicologiche, rinforzi cupi ma solidi del proprio orgoglio messo a confronto con l’arduo destino, e il carattere sinistro dell’evoluzione verso il finale è segnalato dalla somiglianza della stessa automobile su cui viaggiano i due con uno degli insetti, con la sua scocca nera e l’andatura silenziosa nel buio della notte tormentata dagli incendi. E d’altronde gli insetti, a giudicare dal loro comportamento, continuano a mutare e ora pare che considerino l’uomo come loro nemico naturale, da quando questo usa in maniera massiva gli insetticidi. “Ci rendono pan per focaccia. Sono intelligenti quanto noi“, sostiene Parmiter dal suo punto di vista. Certamente, certi esseri umani sono viscidi come scarafaggi, ma non sarei tanto convinto della loro intelligenza. A proposito di come trattare gli uomini e le loro… anime, viene di nuovo riproposto il tema iniziale dell’ecclesiastico predicatore, che ora è anche lui entrato in un’ottica estrema, tanto da ammettere, tra l’allibito e lo sconfortato: “Fratelli… Dio è impazzito!

Parmiter invece è ormai più invasato che semplicemente calato nel suo ruolo da empio in cerca di riscatto, perchè risponde a Metbaum che “La Morte non fa paura. Anzi, può essere misericordiosa. Pensa a un mondo senza la Morte“. Tutto vero, ma solo lui in quel momento può deglutire quella velenosa verità; il suo infatti ha l’aria di essere un amaro calice… Li aspetta entrambi un mare di fuoco e di strati e strati di insetti brulicanti e stridenti, sulle strade e verso… 

Parmiter l’aveva detto : “So dove vanno“.

Tacker è fuggito insieme con i suoi amici dopo aver sentito una tremenda esplosione mentre giocavano a poker, ma orrendo è lo spettacolo delle “fiamme che divorano la casa di Tacker, ultimo baluardo della ragione nell’incubo di un folle“, scrive Page.

Le autorità faranno qualcosa – usa dire il popolo quando, davvero ridotto male da una catastrofe come questa, si deve rimettere alle capacità a volte dubbie dei suoi rappresentanti – ma in realtà noi come lettori e anche la razza umana nel suo complesso, come sostengo a volte quando parlo del mio premiato benchè incompiuto e inedito “Progetto NO”, è irresistibilmente attratta dall’abisso, è preda del cupio dissolvi, gode nell’immaginare sulle pagine o vedere al cinema il proprio annichilimento.  

E in musica, allora? Potrei citare la fame di distruzione, “Appetite for destruction“, dei Guns & Roses negli anni ’80, quando poi non a caso composero anche un brano per la colonna sonora di “Terminator 2” di James Cameron, e i King Crimson del genio chitarristico di Robert Fripp: sentimento apocalittico sospeso tra caos e cerebralismo intellettuale radicato fino alla vertigine, in brani immortali come “Starless” (e la sua versione anticipatoria “Senza stelle e nero biblico” – tanto per dare un’idea). 

Starless and Bible black + Red (contenente Starless)

Quindi la marea brulicante e crepitante – questi coleotteri emettono un verso stridulo – che sommerge le strade della metropoli è la dimostrazione che in fondo si capiva che noi esseri umani non avremmo mai combinato niente di buono, che tutto è inutile e che – culmine iperbolico dello sfascio – siamo condannati a soccombere proprio dinanzi all’avanzata di uno degli esseri più schifosi dell’universo – se “Alien” di Ridley Scott è d’accordo. 

E infatti non è tanto questa linea narrativa degli sforzi indirizzati alla salvezza che noi lettori siamo invitati a seguire, ma piuttosto, proprio focalizzandoci sulla involuzione psicologica asociale di cui parlavo prima, quella del torvo Parmiter, ormai lanciato come un Capitano Achab di Melville all’inseguimento della sua idea di scarafaggio ideale – in qualche misura – tant’è vero che nella sua reclusione ossessiva (altro che lockdown!) aveva trovato il modo di comunicare (!) con la sua corposa colonia di insetti allevati, di cui ha la paternità in termini di coltura biologica. Quando si dice “confrontarsi con l’orrore” o “farsi amico l’orrore”, come disse il Colonnello Kurtz di “Apocalypse now!” di Francis Ford Coppola (da “Cuore di tenebra” di Conrad), pensiamo a un confronto serrato con i nostri demoni interiori o con il nostro prossimo bastardo (Sartre scrisse: “L’inferno sono gli altri”)? Sono due vie parallele, e tanto peggio per chi deve lottare su entrambi i fronti. 

Illustrazione ispirata a “La metamorfosi” di Kafka

Però colpisce come, mentre nell’illustre precedente di Kafka e de “La metamorfosi” l’uomo è atterrito e finirà schiacciato, appunto come un insetto, ma allegoricamente, dalla immane vergogna di non essere degno della sua famiglia (che poi a chi legge fa schifo anche più più di lui) tanto da uscire dall’ambito umano, in “La piaga Efesto” vediamo Pamiter come l’incarnata consapevolezza, unita a compiacimento, dell’abisso cui si è destinati, e lui cerca fino in fondo la “comunione” comunicativa di intenti, in concentrazione solitaria, con il suo piccolo mostruoso esercito di coleotteri neri. Questi sono ormai capaci di disporsi da soli in file sulla parete componendo delle lettere per comunicare, dopo aver appreso fin troppo dai movimenti, i rumori e la voce del loro “padre” umano. 

Ho citato in precedenza “Frankenstein” perchè anche essi però si ribellano: sono legati a Parmiter ma non disposti ad obbedirgli sempre, e possiamo assumere questa come la prova che se qualcuno flirta troppo con la propria dissipazione infine essa diventa irresistibile.

Non posso esimermi qui dal citare anche un altro grande classico di un autore che è stato alfiere della New Wave fantascientifica come Ballard e qualcun altro: lui è Thomas Disch e il racconto si intitola “La signora degli scarafaggi” (dall’omonima antologia, uscita anch’essa con Urania negli anni ’70): direi che NON è Solarpunk (eheh, scherzo) ma la storia di una donna di provincia, ora inurbata, che sotto metafora si trova a confrontarsi in modo ravvicinato e anzi promiscuo con la corruzione spicciola economica e sessuale della grande città, il tutto in modo molto obliquamente suggerito, in un’atmosfera che è sordida nell’ambientazione ma avanguardistica nello stile. Ebbene, questa signora diventa una figura paradigmatica del limen o della soglia, perchè in parte resta umana, consentendo la nostra identificazione, ma per altro verso si adatta e ci prende anche gusto, e decide lei quando gli scarafaggi devono assalire e ricoprire un terzetto ambiguo di suoi condomini che vivono insieme in poco spazio e quando invece quello sciame formicolante e mortifero deve ritirarsi.

Thomas Disch

Il fulcro della narrazione è dunque Parmiter… concentratissimo studioso nonchè insegnante in un piccolo college, che potrebbe essere accostato addirittura a Darwin e a Linneo… Questo pensa lui (pag. 83) mentre in altri momenti è consapevole di non avere amici e di avere a tratti paura di ciò che lui stesso dice – e però questo non lo trattiene dal parlare con gli insetti, istruendoli, come succede quando un malvagio fa proselitismo. Ma lui non è malvagio, è ambizioso; a domanda risponderà però che lui, sì, voleva che il merito fosse tutto suo, di essere lo scopritore del segreto di questa specie immonda, ma che aveva preso “un po’ qua e un po’ là”, ovvero aveva tenuto conto anche dei dati che gli riportavano il suo vecchio allievo King e l’altro scienziato, Lang. 

Peraltro, neanche costoro erano affatto alieni all’idea di sacrificio: durante un esperimento Lang è stato morso da un serpente, e poi dimostrerà acume nell’intuire le responsabilità di Parmiter e nel cercare di portarle alla luce. Ma un altro esperto, Jamis, che Parmiter convoca eccezionalmente in casa, perché è colto dalla smania di condividere con qualcuno la sua scoperta, avrà la funzione di interpretare il pensiero del lettore più equilibrato, perchè, Jamis, affetto da entomofobia o più semplicemente schifato da quelle bestie, inorridirà, cercherà di far ragionare lo scienziato ossessivo ma poi, andandosene, non avrà una bella sorte. Per niente. E anche un altro sarà minacciato: Hallowell. Gli insetti infatti hanno cominciato a ribellarsi anche al loro “allevatore” cercando di espandersi autonomamente. E di difendersi come specie. E una delle tante riflessioni intercorse tra lo scienziato protagonista e il suo assistente riguarda proprio l’istinto di sopravvivenza come specie, che sarebbe un impulso più forte dell’istinto sessuale e della fame! 

C’è anche, nel libro, un riferimento alla teoria dell’emulazione di messaggi dei media, o alla loro influenza: tutto da solo, nella sua casa, stanco, sporco e senza far circolare l’aria, assiste in TV a un film horror, “X, lo sconosciuto”, su un terrificante grumo di fango viscido che in Inghilterra fa fondere le persone. Uno scienziato lì troverà poi la giusta contromisura. Parmiter si diverte molto durante la visione. Alla fine sarà anche lui un benefattore o sarà ricordato come un genio del Male? Intanto, forse questo è un riferimento cinematografico implicito a “The Blob” (il fluido mortale), di Irvin S. Yeaworth Jr, che è del 1958 ma che aveva avuto un sequel proprio nel 1972, l’anno prima dell’uscita di “La piaga Efesto”. È divertente pensare che l’idea di Blob venne a Irving Millgate, un professore di una università minore, come Parmiter, e che parlando di questo suo soggetto a un distributore e poi a un piccolo produttore, fece diffondere in tutto il mondo le immagini di quella forma di vita aliena amorfa. Fu il primo film in cui Steve McQueen recitò da semi-protagonista.

Nella realtà il romanzo di Page è stato trasposto invece in “Bug – Insetto di fuoco” (Bug, 1975) film diretto da Jeannot Szwarc che è più un “giocattolo” spettacolare che uno sviluppo intenso dei temi del soggetto. Tutt’al più l’insetto di fuoco rappresenta l’imponderabile distruttivo e destabilizzante nei confronti di un mondo che pretende di basarsi sulle leggi naturali e sulla scienza.

Fotogramma da “Bug – L’insetto di fuoco”

Nel letto d’ospedale l’assistente Metbaum si lascia andare a una ricostruzione ipotetica di tipo antropologico-mitico sulla possibile esistenza dei Parmitera già nella Preistoria, quando forse, producendo il fuoco per lo sfregamento dei loro cerci inferiori, hanno come Prometeo “portato il fuoco agli uomini”, che fino ad allora erano stati arboricoli e poi impararono forse ad imitare gli insetti nel creare il fuoco, ma sfregando rami o fuscelli. Si può dire però che in tempi ben più vicini a noi quelle detestabili creature hanno sempre evocato il senso di degradazione, anche personale, e non di una evoluzione. Infatti, come già accennato, in una delle pagine più iconiche del Modernismo letterario, Gregor Samsa, lo sventurato protagonista di “La metamorfosi” del grande Franz Kafka è il patetico e modesto opposto – fatalmente discriminato e ripudiato dalla famiglia – di questo Parmiter che invece considera la colonia di insetti la sua famiglia e vuole che restino con lui e che vibra di orgoglio quando si sentirà di dire a Jamis: “Non mi lasciano“.

Neanche il protagonista del formidabile adattamento cinematografico del “Pasto nudo” di Burroughs, per la regia di un altro grandissimo, Cronenberg, ama granché gli insetti: è un disinfestatore, e soffre nel dover interagire con quella spia che è la macchina da scrivere scarafaggesca che si ritrova nella sua stanza nel Nord Africa.

La macchina da scrivere-scarafaggio in “Il pasto nudo”

Anche se il romanzo di Page è un classico piuttosto noto agli appassionati di Fantascienza di tutto il mondo, voglio evitare di fare spoiler. Ma la storia, nel suo acme finale, non vi risparmia i dettagli di quest’inferno raccapricciante in cui in fondo per vostri motivi, lettori, volete calarvi, e trasmette brividi la scena in cui lo scienziato e il suo assistente vedono la loro macchina invasa da quelle odiose bestiacce, con sciami di questa eccezionale specie di scarafaggi che coprono i finestrini e riescono ad entrare dentro. Parmiter prende ciò che gli serve, scende dalla macchina e prosegue da solo, andando incontro al destino incerto che dovrebbe essere la sua nemesi: l’incontro finale, totalizzante, con questi insetti della malora, che riconoscendolo non lo uccidono e marciano in massa verso la location ultimativa di questa loro nuova migrazione, che è un ritorno all’origine. 

L’allucinante scenario riecheggia, per noi italiani, il famoso racconto “Il mar delle blatte” di Tommaso Landolfi (1939), è opera surreale e grottesca in cui i personaggi si ritrovano impegnati in una inedita versione dei grandi viaggi per mare del Cinquecento, con i favoleggiati mostri marini sostituiti inverosimilmente dagli orridi insetti, che sono invece fauna di terra. L’effetto è lo stesso che nelle fasi finali del romanzo di Page: quello di un oceano di orrore in cui bisogna avanzare.

Si scambiano messaggi, gli insetti tra loro e lui con loro; Parmiter, dolorante per le ustioni riportate nell’incendio di casa sua, cade un paio di volte nello spesso tappeto nero brulicante ma si rialza… va avanti… riflettendo ancora, confusamente, su qualche frammento delle sue azzardate teorie. (…) Metbaum, l’assistente, facendosi forza per non impazzire, tornerà invece indietro, ed è orrenda l’immagine idealmente cinematografica dei “fanalini posteriori che illuminavano la torma di insetti in marcia, incuranti di venire schiacciati sotto le sue ruote“. Anche noi esseri umani abbiamo alcune dimensioni antropologiche sicuramente di tipo collettivo, come la tendenza a farci travolgere – o schiacciare – dalle emozioni, positive e negative, commettendo poi crimini o limitandoci ad assaporarle nel rito neo-platonico della sala col grande schermo o inseguendo in un profondo e intimista vortice le calibrate ma intense forme linguistiche concentrate in un libro. Siamo attirati non come blatte ma magari come moscerini dalle sorgenti di luce emozionale, e, anche se si tratta di sconvolgenti esorcismi di ancestrali paure, diremo ugualmente che quella che ci spinge è la passione, e la passione è per definizione un amore sofferto, quale quello per i misteri mozzafiato della Fantascienza. 

il7 – Marco Settembre
gio 15/12/2022 3:10

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