Sogno, lotte e inganni, in “Mater Maxima” di D. Altomare

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Fermo restando che, tra ChatGPT che imitano illustratori e scrittori, e autori mainstream che fanno SF senza farla dichiarare ai loro editori, viaggiamo sul crinale tra guerre civili che potrebbero scoppiare, oltre che trascinando la preoccupazione per una guerra vera che ha sostituito il Covid con più tangibili carrarmati, va detto che in ambito fantascientifico si poteva pensare (qualcuno l’avrà fatto di gusto) che io dovessi farmi perdonare per non essere aggiornato sulla qualità dei nostri autori contemporanei . Ebbene, non è proprio così: è vero che sono indietro (ho seguito percorsi diversi, per tanti anni: arte, sociologia, grafica, giornalismo) ma certamente mi adopero ormai da un po’ per mettermi sulle tracce di alcune tra le penne più notevoli del nostro panorama. E così, quando dicevo di ammirare Donato Altomare non era piaggeria, ma partivo dalla convinzione ovvia che una tale autorità, con un botto di Premi Italia vinti e un curriculum aerospaziale, dovesse necessariamente poggiarsi su un’”arte” sopraffina da autore consolidato ma non per questo legato a qualche obsoleta vecchia guardia o giù di lì. Nutrivo cioè una stima “a scatola chiusa” per colui che è anche non a caso il Presidente della World SF Italia, meritoria associazione per la divulgazione e la crescita della Fantascienza nel nostro Paese; e mi sembrava del tutto naturale. E poi certo, naturalmente, è arrivato il momento in cui ne ho potuta avere conferma leggendo il suo primo romanzo premiato, quello che gli ha spalancato i livelli superiori della sua lunga carriera, ultimamente arricchitasi del volume di Hard Sci-Fi “Warmhole” (Ugo Mursia Editore, 2022), a quattro mani con l’astronauta Umberto Guidoni.

Copertina di “Wormhole”

Ma, appunto, ora è dell’ormai classico “Mater Maxima” che voglio occuparmi. Forse è già abbastanza noto che Altomare ama parecchio anche il Fantasy, oltre alla SF, e che, scrivendo racconti (la sua “misura” preferita), decide di volta in volta in quale genere del Fantastico calarsi a seconda degli sviluppi narrativi; ebbene, in questo caso lui ha iniziato – come spiega nella sua intervista a fine volume – proprio scrivendo un racconto, che via via si è ampliato fino a tentarlo di fargli raggiungere la lunghezza giusta per poter partecipare al Premio Urania, che poi ha vinto. Questo a una lettura coinvolta ma anche attenta risulta attraverso la struttura del romanzo, che inizia quasi alla maniera cyberpunk, con un personaggio deciso che vive speculando abilmente su una sua singolare capacità virtuale che lo rende peraltro perfettamente indipendente e conteso sul “mercato” – quella di creare sublimi spettacoli di massa in gare non particolarmente impegnative per il suo grande talento; l’elevato numero di competizioni gli permettere di accumulare facilmente somme che gli garantiscono un certo agio e di non avere vincoli, finché… avverrà un incontro fatale. Questo suo menage viene illustrato appunto dall’autore con una serie di rappresentazioni nella rappresentazione che hanno ambientazioni diverse e anche felicemente anacronistiche, per poi approdare ad una Seconda Parte dove si giunge al “core”, al nucleo in tutti i sensi della narrazione. E questa è solo una ripartizione semplicistica, perché il punto è che – che prevalga un punto di vista maschile ma non machista nella prima parte o un’ottica decisamente femminile nella seconda – certamente vengono estrinsecati nella storia una serie di nodi esistenziali tra il sentimentale, il sessuale e il familiare, vivacemente e saggiamente miscelati a temi tipici della SF come appunto la simulazione, la vita su un satellite, il rapporto Uomo-macchina, quello tra virtuale e reale, ma anche il potere del Sogno, che in questi termini rimanda forse non proprio al Surrealismo a me caro ma alla Poesia, che è un’altra passione e vena creativa del poliedrico Altomare. Volendo, nell’accenno al concepimento in provetta, prevalente in questo universo narrativo, si può cogliere una posizione politica tradizionalista che oggi fa il paio con quella anti-rave, ma la mia è solo una battuta, perché è chiaro a chiunque ami la vita che la monopolizzante passione per la tecnologia ci espone a pericoli di disumanizzazione che sono quelli contro cui questo intenso romanzo si pone come manifesto.

Ambientazione cyberpunk

E allora, riprendendo uno dei tantissimi spunti del libro, viene da dire, parafrasando, che anche se è fiction (nel romanzo ci si riferisce alle rappresentazioni virtuali pregnanti e vivide create dai cosiddetti Sognatori), si muore davvero, nel senso che anche noi lettori siamo trafitti da queste considerazioni che narrativamente ci espongono alla natura delle nostre emozioni più profonde, dall’orgoglio alla paura, dalla violenza al pacifismo, dall’amicizia all’inganno, fino all’amore sensuale e alla maternità. Infatti, giusto per rappresentare la dimensione erotica ben lontana dalle provette, non mancano nella prima parte momenti intriganti di sesso e seduzione, nel cui intreccio anche qualche situazione poco ortodossa – la libertà ottenuta chissaccome da Leuconoe nel suo matrimonio non subito rivelato – può essere intesa come sofisticato spunto per fantasie. Ma ribadisco che il contesto resta fantascientifico, tanto che l’inizio, come già ho accennato, ma anche gran parte dell’impianto della seconda parte ricordano un po’ William Gibson e le trame affaristiche e le questioni anche legali connesse al traffico nelle reti e alle tipologie di sistemi di sicurezza informatica.

Making cyberpunk business

Questo appaga il gusto per l’avventura e l’intrigo e l’azione che è tipico di chi frequenta il nostro genere letterario preferito, ma Altomare è però abile e sincero nel voler spezzare queste convenzioni e certi clichè riservando pagine esemplari al ribaltamento di questa estetica non etica in un messaggio che invece ripudia il sotterfugio, i sottintesi velenosi, e depreca le trame subdole. Questa è musica per le mie orecchie!, in rapporto a come dovrebbe essere condotta la vita in quest’era di piattaforme impalpabili in cui si annidano algoritmi invadenti e traditori, e dove qualunque bifolco può apostrofarti in malo modo, nascosto dietro uno schermo da dove si diverte a “blastare” o bullizzare, con un vile e sterile “colpisci e fuggi”. Nella fiction sia Donato Altomare che io possiamo sbizzarrirci a confezionare situazioni torbide, utili magari a annodare e sciogliere viluppi conflittuali nella trama, ma la vita vera dovrebbe essere ben altra cosa. 

Nel Cap. 24 si legge: “Cacciò dalla mente quel pensiero: non voleva più interessarsi di quel satellite dove perfino i computer erano bugiardi, per non parlare delle donne”.

Questo potrebbe ricadere nella categoria della contrapposizione tra vita e non-vita, laddove nel romanzo, o meglio a margine di una delle sue scene epiche, il protagonista Gabriel (l’autore non ha certo scelto un nome qualsiasi per il Primo Sognatore), il migliore “sulla piazza”, sostiene che in fondo la seconda, la non-vita in cui ci si può ritrovare incagliati trascinandosi in una stasi sottovuoto, è peggiore della morte stessa. Questi insegnamenti, compresa una brevissima storiella zen, ci accompagnano nella definizione di questo personaggio che rispecchia me ed altri ex giovani intrepidi di ottimo livello, che amano la competizione, se sportiva e leale, e sanno picchiar duro nel recinto delle regole dall’alto di una fantasia superiore – ma che avvertono umanamente l’imbarazzo di lottare contro un’amica che per giunta ha la caratteristica di una leggerezza spiazzante. L’andare a fondo di una situazione simile espone poi a sensi di colpa che portano il lettore ad esperire, dopo la stretta adrenalinica della lotta in una cornice horror-weird declinata in modo magistrale, anche il Dolore vero per l’infausta fine proprio di quell’amica, per conseguenze fuori portata. Altomare in questo riesce ad essere davvero spregiudicato: con convinzione, e capacità nel world building, fa decantare, tra il personaggio di Gabriel e quello di Barba, un suo strenuo rivale, i valori dei cavalieri medievali del Ciclo Bretone (fu una passione anche per me, in un periodo della mia gioventù) salvo poi demolire storicisticamente quella visione romantica in una orrida e spietata raffigurazione di ciò che realmente accadeva a quei tempi e che poi veniva celato in parte dai paramenti nobiliari e da qualche piacevolezza di corte.

“Il cavaliere di Tau”,
di Donato Altomare

E ancora: nei capitoli finali del romanzo, in una successione di colpi di scena, riesce a mostrarci, a seguito della presentazione del problema (la sopravvivenza di una prole naturale dei cosiddetti “satellitari”, tenuta in sospensione tra la vita e la morte in vasche di cui il superiore computer Mater Maxima ha il quasi totale controllo), la preoccupazione e la sottomissione del contingente umano destinato a trattare con questa potente AI, poi – non voglio rivelare troppo – le motivazioni, i mezzi e le strategie per tentare una ribellione, e quando il lettore sta tirando il fiato la situazione precipita di nuovo in modo a quel punto inaspettato e disperato, con un’altra trovata horror ispirata ai grandi classici del genere, ma in particolare a un aspetto di solito di natura ambientale, i topi, che in questo caso rischia di diventare protagonista. Il coinvolgimento di creature innocenti e perciò sacre, che di norma vengono per un comune tabù tenute narrativamente lontane da sviluppi tragici della storia evidenzia come Donato Altomare abbia una mano sicura nell’alternare i registri stilistici ultramoderni e arcaicizzanti, e che però il ricorso a violenze “che neanche una mente insana poteva immaginare” gli è utile per denunciare gli abissi maligni con cui il lato positivo e i valori nobili dell’Uomo e suoi personali sono chiamati a confrontarsi, il che è la terribile, ferale e per alcuni facile alternativa che rende la vita una quasi costante lotta tra Bene e Male anche nei più limitati frangenti delle nostre esistenze, in cui tutt’a un tratto può spuntare fuori il bullo in crisi di nervi che mette in dubbio il nostro valore o ci tira un suo scarpone pieno di pulci. 🙂

La brillante qualità di tener così desto l’interesse del lettore in modi e successioni tendenti all’imprevedibile, in Altomare, si dispiega in questa capacità dunque di usare finezza psicologica, umorismo (fino al punto di rappresentare, per antinomia, l’eccesso di umorismo nel personaggio di Giovanna la Mastodontica o la sua totale assenza nel computer Mater Maxima) insieme alla duttilità nella costruzione degli scenari; l’ho già detto, lo so, ma vorrei aggiungere che questo tratto dimostra in modo evidente anche come Altomare, pur amando autori storici di Fantascienza dei quali il più “fuori tra le righe” è il mio prediletto Philip K. Dick, tuttavia non è affatto un tradizionalista, perché la struttura composita di questo ricco romanzo ne fanno a pieno titolo un’opera postmoderna. E per spiegarmi meglio dirò che oltre all’inserimento innovativo di parti poetiche in un testo di Fantascienza (che già rappresenta un’ibridazione postmoderna e neanche tanto comune, a parte un autore sospeso anch’egli tra SF e Fantasy come Roger Zelazny), una digressione proprio sul concetto di “meraviglioso” (pag. 210),  gli squarci numerosi su altri tempi come quello delle piramidi d’Egitto, troviamo o riconosciamo anche veri e propri omaggi ad altri prodotti del Fantastico, opere di culto che il lettore ama ripercorrere anche nella versione rivisitata da un autore contemporanea, se capace: ci sono echi de finale del film “Excalibur” di John Boorman a pag 214, ma in particolare mi voglio riferire alla scena della corsa in moto sulla pista chiamata Death’s Road Roller, autentica e inebriante sfida a due, tra Il Sognatore Gabriel e il suo avversario noto come il Folle, per via della risatina sclerotica (ben diversa da quella vivace e argentina tipica di Mater Maxima che però suona incongrua in un supercomputer dominante): è una ripresa di tante scene simili, anche al di fuori della Fantascienza: tra “Gioventù bruciata” con James Dean a “Rollerball” fino al più recente, ipergiovanilistico e da nerd “Ready Player One” di Spielberg (che ho recensito), e chi è anche solo un minimo consapevole del lunghissimo dibattito culturale di livello accademico sulla natura e la prospettiva del Postmodernismo (posso ricordare i fondamentali contributi di Francois Lyotard, Fredric Jameson, David Harvey, materiali che studiai ai tempi dell’università – Sociologia dei Mass Media e Sociologia dei processi culturali) saprà bene che una dimensione espressiva tipica di questo amplissimo movimento culturale o galassia del gusto è il citazionismo, la tendenza a far ricorso a tutto lo sterminato repertorio storico per attualizzarlo e renderlo vivo e fruibile, in una formula si spera non necessariamente kitsch come quella di Las Vegas e delle riproposizioni architettoniche di arcinoti monumenti e architetture di varie parti del mondo. Il Postmodernismo degli autori più maturi riesce ad attingere ad esperienze estetiche precedenti in un modo calibrato e non superficiale, proprio come fa Altomare, la cui passione per la Storia è quantomai sincera, come s’è detto all’inizio.

Copertina del poderoso saggio
“La crisi della Modernità”
di David Harvey

Il Sognatore principe dietro le pagine è ovviamente lui, che valorizza la Fantasia come valore umano forse superiore e sicuramente complementare alla Scienza, e che ci permetterà sempre di essere un passo avanti rispetto ai surrogati elettronici che magari un po’ incautamente creiamo. Possiamo trovare connessioni tra elementi lontani tra loro, connessioni inedite che ispirano ipotesi innovative (in Sociologia questo è codificato come “immaginazione sociologica”, secondo Charles Wright Mills, e chi considera ciò come una “perversione” è lui a non essere tanto lucido o a non avere una chiara conoscenza del progresso scientifico, che procede appunto per intuizioni da mettere poi a punto, confrontandole con teorie preesistenti, e verificarle empiricamente col confronto con dati storici o con l’ausilio di strumenti statistici. A proposito del megacomputer Mater Maxima, o, se vogliamo, del ChatGBT, vediamo che è proprio la fase dell’intuizione o della serendipità ciò che manca a queste macchine.

Vengo con questo ai personaggi della storia: per mia dolorosa disposizione personale ho iniziato a leggere “Mater Maxima” pensando appunto di trovarvi qualche traccia fantomatica della mia scomparsa madre, amatissima per tutta la vita e poi trasformatasi, per un Alzheimer, in un pesantissimo enigma vivente da incubo, che ho dovuto subire e perdonare con non poca fatica e con la quale comunque ho ristabilito un legame in spirito davvero costante, intenso e commovente. Be’, l’inizio del romanzo è invece molto maschile – come già detto – e le trattative economico-legali (Altomare è ingegnere e perito legale) la fanno da padrona insieme al senso d’indipendenza del protagonista e alla sua sicurezza nelle sfide a colpi di Sogni nei vari tornei (un riflesso dei Premi di letteratura di Fantascienza? O anche di corse sportive?), ma, a parte Gabriel (alias dell’ex leader dei Genesis?), spicca un personaggio femminile che nel corso del romanzo si delineerà in modo assai più completo: è la bellissima Leuconoe (lo stesso nome di una donna amata da Virgilio, che le dedica, nelle “Odi”, una poesia improntata al principio del “carpe diem”, citazione poetica che quindi è un altro segno della cultura classica dell’Autore) che ci appare prima come estremamente fragile almeno fisicamente ma consapevole della sua bellezza, poi come una manipolatrice che si era finta una vittima calcolando invece tutto e avendo “infinocchiato” per primo il suo borioso ma succube marito (!) Latino, che a tratti farà la figura del più patetico “cornuto contento”.

Altomare invece – ma forse Gabriel non è un suo alter ego proprio in toto; potrebbe essere imbarazzante chiederglielo – fa fuoco con un bazooka sull’apparizione fantasmatica della sua (di Gabriel il Sognatore) ex moglie, anche se poi attenua il “concetto”.
E allora, altro che “viaggio dell’eroe”, come si dice in narratologia: mentre io (cioè Gabriel, ovvero Altomare) siamo fondamentalmente rimasti gli stessi, pur crescendo in età e capacità, Leuconoe si ritrova a passare da inerme ma passionale amante a seduttrice per convenienza, essendo al contempo già coniugata con un altro, e quindi il lettore è chiamato a modulare il proprio giudizio verso questa figura ambigua e perciò quantomai complessa.

E però nel libro la vicenda evolve e i due protagonisti si assestano nel rapporto d’amicizia e lei assume in seguito una veste di responsabilità collettiva – vedi oltre. Ma quel che cambia tutto e che dà ragione al titolo e soddisfa infine le aspettative del lettore è ciò che accade nella seconda parte, che a buon ragione Altomare dice essere femminile, perché Gabriel, nonostante la sua eroica abnegazione dovuta in fondo a “quel figlio che aveva sempre desiderato e mai avuto e che si era perso nei desideri fumosi di un mondo [quello ipertecnologico] che dava molto perché toglieva tutto” (e questo indica il valore di un figlio e sintetizza la critica sociale), si vede “rubare la scena” da altri personaggi, da Latino a un ufficiale del satellite, fino al suo Sognatore rivale, Barba – a cui Gabriel chiede i motivi del suo odio, sentendosi rispondere che quello lo considera un debole e che dunque sfacciatamente lo disprezza proprio per le sua integrità; ma poi anche questo personaggio avrà un’evoluzione sorprendente. Però – eccoci di nuovo alla protagonista femminile – è soprattutto Leuconoe che si si profila come gestrice di una comunità (quale può essere la popolazione del “satellite” o di una famiglia, o di una famiglia allargata, come si diceva qualche decennio fa) e anche come madre che deve mantenere in pugno le fila della strategia complessiva tenendo conto del marito, pilotando ancora col suo potere il protagonista ex amante, e cercando di difendere la prole speciale (umana al 100%) sua e quella di pochi altri abitanti del satellite. Anche in questo frangente, la sua duplicità può lasciare perplessi – ma permette al suo personaggio di essere coerente con la sua natura, per quanto discutibile sia – eppure si ha l’impressione che agisca in buona parte per il bene comune e che sia Gabriel a scontare il fatto di essere un “esterno”, un indipendente, un apprezzatissimo freelance ma senza radici. Sempre per evitare gli spoiler, non riferisco in dettaglio i rivolgimenti della trama, ma mentre Gabriel in un certo momento sembra proprio estromesso, il che gli fa piacere al 60%, per i modi in cui il fatto è maturato, quel che conta di più, a parte il suo ritorno in ballo, è che nel finale troviamo a confronto l’austerità elettronica di “Mater Maxima”, col suo strapotere inattaccabile che vagamente fa pensare a una supernonna che cerca compagnia da parte dei suoi figli prediletti (in un modo soffocante e conflittuale che, se lo pongo a confronto con la mia vicenda, c’è ancora da farsi venire vertigini hitchcockiane: mentre nel romanzo Gabriel, in un momento in cui pensa di poter osare, rifiuta di essere da lei chiamato “figlio”, lasciando il supercomputer interdetto per qualche istante, nel mio caso invece, in una fase avanzata fu lei a non riconoscermi per un lungo periodo, modulando ciò in modi per giunta decisamente provocatori, come se quello fosse l’esito di un giudizio morale, di una mia degradazione tinta di sarcasmo; terribile, e fu solo una fase tra altre!) e la figura sgusciante, multidimensionale, ora affranta ora sobillatrice ora riemergente, di Leuconoe… e l’interfaccia tra le due è inquietante, anche se nel romanzo, pur tenendo conto che il supercomputer agisce in quel modo semplicemente perché non è programmata né programmabile per capire interamente l’Umano, essa di fatto ha tenuto in ostaggio, in un coma artificiale indefinito, quei giovanissimi figli di satellitari che erano stati concepiti in modo naturale, perciò non abbiamo dubbi su quale parte dobbiamo prendere.

Supercomputer quantistico

E in fondo tutto il romanzo, al di là del suo essere stato concepito a blocchi successivi, sembra avere la funzione – specialmente dopo la fase di mirabile montaggio alternato delle scene a partire dal Capitolo 40 per un bel po’ – di portarci al discorso che Leuconoe stessa tiene a Mater Maxima: la passione, intesa come viluppo di corporalità, mente, piacere e sofferenza, di cui sono portatori gli umani, non può essere convogliata né in una provetta (nella fecondazione in vitro, tema di qualche vecchia battaglia sociale per i diritti), ma neanche in una colossale AI quasi-onnipotente/onnisenziente che pertanto arriva persino a essere profondamente affascinata dai Sogni umani; no, l’impasto d’esperienza umana è irriducibile e intraducibile, per cui… Quel che resta, regolati  i conti – a suon di Dolore, lacrime e qualche rimpianto – con la superpotenza matriarcale (artificiale come anche quando è umana ma totalizzante), è la Vita che va avanti: tutto dovrebbe riacquistare il suo posto, se ancora c’è. I figli sono la speranza prospettica per un mondo che sarà forse il Futuro riumanizzato e lontano dopo la deriva prospettica del nostro presente, intasato di smartphone e di SPID e di pagamenti on line, carte clonate, e fine del cinema in sala, ma soprattutto si può pensare che si possa ripartire da quegli atti di comprensione superiore eppure primordiale, istintivi eppure carichi di Logica fondante, che sono quelli d’amore fisico (ma naturalmente anche di comunione spirituale) che il Gabriel britannico di nome Peter ha sintetizzato nel suo brano da solista “Blood of Eden” (dal suo disco della maturità, “Us”, noi, 1992) come “l’unione della donna, della donna con l’uomo”. La maternità maxima nasce solo da questo. Il romanzo di Donato Altomare è formidabile nel lanciare questo messaggio fondamentale, e anche per la sua articolazione complessa e sfaccettata, che intrattiene grazie alla potente facoltà della Fantasia post-surreale e poetica e ai suggestivi rimandi storici, e fa riflettere sia sull’esigenza narratologica di mantenere il lettore nell’incertezza sul segno che assumerà l’esito finale, sia sulla scomoda necessità di doversi difendere adottando alla bisogna anche quelle furbizie che di norma ci repellono, ma cercando di farlo sempre con lealtà. Le complicazioni, appunto, sono anche estremamente ingombranti, a volte, e serve allora maturità per capire come comunicare in modo lineare, limpido e sincero, scusandosi quando è necessario.

Quanto alla mia personale Mater Maxima in carne e ossa, dopo la tragica fine della sua lunga parabola – è scomparsa a 91 anni, e senza quel dannato Alzheimer avrebbe potuto essere ancora più longeva, data la tradizione familiare – l’ho prima incontrata in sogno varie volte in modo ancora conflittuale, ahimè, come eco mnemonica di quello che avevamo passato, ma poi il rapporto spirituale tra me e lei, ristabilito nella sua normalità con i nostri dialoghi virtuali, ha fatto sì infine che in altri sogni io l’abbia rivista com’era e che in uno di questi lei mi abbia detto che sapeva che ero bravo ma che non si aspettava che sarei diventato moralmente un gigante! Al risveglio mi sono commosso ancora più del solito.

il7 – Marco Settembre

dom 14/5/2023 14:30

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